Regia di Hirokazu Koreeda vedi scheda film
Un aldilà dall’organizzazione meticolosa e quasi kafkiana - almeno per quanto riguarda il suo “vestibolo” - scopriamo essere l’idea bizzarra e piuttosto originale che il gran regista giapponese, qui alla sua opera seconda, si è fatto di ciò che può aspettarci dopo la morte. Non si parla tanto di paradiso o inferno, quanto piuttosto di come organizzare la vita eterna alle anime dei defunti appena varcate le porte del regno dei morti. Il regolamento vuole che i nuovi arrivati, accolti in un centro di smistamento dalle atmosfere piuttosto sciatte e grigie, quasi si trattasse di un triste a anonimo ospizio per anziani, vengano chiamati uno ad uno per una lunga ed approfondita intervista, che ha come fulcro una richiesta particolare: il nuovo arrivato ha tre giorni per scegliere uno ed uno solo dei momenti più felici che abbiano caratterizzato la propria esistenza terrena. Una volta individuato, l’episodio va sviscerato da parte del defunto in modo più particolareggiato possibile per far sì che una troupe cinematografica ingegnosa e intraprendente, possa organizzarsi per riprodurre fedelmente la circostanza prescelta: l’attimo, o l’episodio, o il momento definito diverrà lo sfondo e l’ambientazione nella quale vivere la propria eternità ultraterrena. Bella o brutta che sia, la notizia è comunque piuttosto sconcertante (anche per lo spettatore, colto per l’occasione da sentimenti contraddittori e non molto tranquillizzanti a ripensare a quella bizzarra eventualità, semmai dovesse capitare anche a lui in un giorno che tutti o quasi speriamo remoto) e ancor più il venire a sapere le circostanze per cui in quel “limbo” da set cinematografico, molte anime si trovano ancora in quel posto, impiegate fino a nuova decisione per lo smistamento e l’organizzazione di quella struttura organizzata da regole ferree, pratiche, spicciole, e apparentemente piuttosto poco “paradisiache”. Il maestro Koreeda parlerà spesso di morte e del senso di perdita di un proprio caro, magari prematuramente scomparso, anche nelle sue opere future (vedere quel capolavoro di “Still walking” per credere). Qui l’aldilà inquieta per l’opacità neutra della sua struttura, per la laboriosa ma tutt’altro che divina organizzazione “a formicaio” della sua complessa ma funzionale struttura, fatta di distribuzione di mansioni, di gerarchie prestabilite, di cordialità ferma ma inflessibile nel far eseguire quanto il programma prevede. Forse davvero “il paradiso può attendere”, e le premesse di una vita futura ed eterna ferma immobile per sempre all’istante anche più magico ed esaltante della propria esistenza terrena è comunque per noi, umanità sguaiata e intransigente, impaziente e sempre in cerca di nuovi tuffi emozionali, più un limite castrante che una sicurezza a cui aggrapparsi. Una visione laica che ci catapulta piuttosto in un limbo, nella medietà quieta senza alti e bassi: dove tutti bene o male sono ammessi, dove la cattiveria non è mai tale da giustificare pene sadiche e granguignolesche, e dove nessuno raggiunge livelli di santità che lo elevino a qualcosa di più superiore e santificante che non sia un momento magari anche idilliaco, ma che comunque, riprodotto con mezzi cinematografici di fortuna, induca a farci pensare che la serenità eterna è tutta un bluff. Un film profondo ed inquietante assieme, in grado di alimentare chissà quante altre considerazioni o che lascerebbe spazio a molti spunti di approfondimento, e che nel suo svolgimento si completa di tutta una serie di episodi di varia umanità o comunque di situazioni che riflettono anche le assurdità dettate dal caso, da leggi che non riusciamo a controllare, dal destino beffardo che gioca a rimpiattino con l’effimero scorrere di esistenze incerte appese ad un filo.
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