Regia di Robert Altman vedi scheda film
Nel piccolo paese di Presbyterian Church, che sta sorgendo in prossimità di una grossa miniera di zinco nella zona montana ai confini con il Canada, arriva John McCabe (Warren Beatty), un sedicente uomo d’affari preceduto dalla falsa fama di ottimo pistolero. McCabe non ci impiega molto a mettere su una bisca clandestina e una casa di tolleranza e a diventare subito una persona di spicco nella nascente comunità. Ad aiutarlo ad incrementare gli affari ci pensa Costance Miller (Julie Christie), una donna affascinante dedita al fumo d’oppio che fa valere la sua esperienza di abile prostituta per rinvigorire il bordello con delle giovani ragazze che lei stessa inizia a gestire. Gli affari vanno più che bene, al punto che iniziano a far gola alla compagnia mineraria che sta per stanziarsi in città per lo sfruttamento delle miniere di zinco. In città arrivano due emissari (Michael Murphy e Antony Holland) della compagnia per fare a McCabe una proposta d’acquisto. Questi non accetta e i due emissari se ne andranno minacciandolo di appropriarsi con altri mezzi dei suoi affari. Arriveranno tre individui questa volta, capeggiati da Butler (Hugh Millais), armati tutto punto e con la chiara intenzione di prendersi con la forza quello che i loro padroni desiderano avere.
Nell’opera di destrutturazione dei generi operata da Robert Altman, “I compari” tende a ribaltare i canoni convenzionali che caratterizzano il western facendo principalmente leva, da un lato, su un territorio freddo e inospitale più adatto alla ricerca ascetica di qualche anacoreta in cerca di solitudine che alle leggendarie cavalcate di impavidi pistoleri, e, dall’altro lato, sulla caratterizzazione un po’ cialtrona dei personaggi, tutti dediti a fare gli uomini “nuovi” per allinearsi ai voleri della società capitalistica che sta mettendo radici. Insomma, gli uomini presenti in questa storia non sanno neanche sparare ("Pistolero? Uomo d'affari, fa meno impressione", dice McCabe a chi gli ricorda qualche episodio passato che gli riguarda), come dimostra il giovane cowboy (Keith Carradine) vigliaccamente assassinato da un sicario della compagnia (Manfred Shulz), lui che era arrivato in città solo per visitare il "famoso" bordello di Costance Miller e che portava la pistola “solo per comodità”. Con questo film, Robert Altman ha voluto dire la sua sulle origini e sull’ascesa poderosa del capitalismo moderno, muovendosi certamente nel solco già tracciato della “poetica del disincanto” di Sam Peckinpah (e penso soprattutto a “La ballata di Cable Houge”), ma distaccandosi decisamente dal maledettismo anarchico di “zio Sam” attraverso un modo a lui tanto caro di fare cinema, che usa le vicende spicciole di piccoli uomini per dare respiro alla grande storia che avanza, per scorgere tra le pieghe di quell’immenso mosaico umano che è il mondo i segni non omologati di altre, possibili, verità che si fanno strada. “I compari” è un canto di morte per le illusioni più belle “dell’ american dream”, contrappuntato dalle dolenti note delle bellissime canzoni di Leonard Cohen (“La sua musica mi ha influenzato sia nella costruzione dei personaggi sia nel ritmo del film”, dirà in proposito Altman) e percorso da una sensazione avvolgente di allegra malinconia che da bene il senso del conflitto in fieri tra la speranza beatamente coltivata attraverso le nuove opportunità messe “alla portata di tutti” e il realismo dei grandi interessi economici che impone prepotente la legge del più forte (sempre quella). Siamo agl’inizi del novecento, nel momento di massima cesura storica per le sorti economiche degli Stati Uniti d’America, quando allo spirito pioneristico di individui in cerca di nuove fortune, si sostituirono le spinte egemoniche dei proprietari terrieri e del grande potere finanziario. La vicenda umana di John McCabe rappresenta appunto la sconfitta della libera iniziativa individuale (fiore all’occhiello per i teorici del liberalismo economico) a scapito dell’indole corporativa del capitalismo dei monopoli. E’ sempre la legge del profitto ad ogni costo a dominare le azioni degli uomini, ma mentre John McCabe e Costance Miller sono occupati in prima persona nella gestione dei loro afffari, con un tale coinvolgimento emotivo che i dipendenti della bisca e del bordello raggiungono un consapevole grado di complicità coi loro interessi, il grande capitale finanziario manda degli emissari per estorcere con false contrattazione un’altra fetta di territorio. Da un lato, ci sono delle persone che barano continuamente con se stessi per sentirsi più importanti di quello che sono, ma che rimangono appunto delle persone, con una faccia, delle debolezze, dei sentimenti, cose concrete a cui chiedere spiegazioni se è necessario. Dall’altro lato, invece, c’è l’anonima presenza di una compagnia mineraria che per il proprio arricchimento prevede l’eventuale eliminazione di ogni forma di resistenza ed esige lo sfruttamento indifferenziato dei più deboli (emblematico è il racconto di Butler, che spiega come sia più conveniente ricavare lo zinco dalle miniere facendo trasportare la dinamite dai cinesi senza preoccuparsi affatto della loro, sicura, morte). Lo scontro tra due modi ben distinti di mettersi in affari, lo sconvolgimento veloce dei “sacri” valori della tradizione, il fatto che McCabe vi si sia trovato in mezzo, travolto da una lotta impari da cui non poteva in alcun modo sfuggire se voleva rimanere all’altezza di quelle aspettative di coraggioso uomo del nuovo mondo che gli avevano garantito una certa rispettabilità sociale, il fatto che tutti i membri della comunità (tutte “facce altmaniane”, da Rene Auberjonois nei panni del padrone del saloon, a Jhon Schuck, da Bert Remsen a Shelley Duvall, “la moglie ordinata per posta”) sembrano stare in attesa per vedere chi avrà la meglio nella contesa, che danno una parvenza di spirito comunitario solo quando si tratterà di dover spegnere l’incendio che sta distruggendo la chiesa, simbolo fondativo della città che sta nascendo dalle ceneri del vecchio mondo, ecco, tutte queste cose insieme danno al film, pur nella logica linearità delle vicende che vi accadono, un carattere marcatamente allegorico. E’ nel finale che tutto si compie, immerso in un paesaggio innevato carico di malinconico lirismo, un finale che rappresenta, come scrive Fabio 1971 (alla cui bella ed esauriente recensione vi rimando) una “delle più grandiose sequenze (oltre venti minuti di durata) del cinema americano degli anni Settanta, climax allegorico ed emotivo del film e sublime sipario sulla perdita dell'innocenza di una nazione, orchestrata su una magistrale scansione drammaturgica del racconto, sospesa tra crescendo di tensione e lirismo e incorniciata nell'esaltante limpidezza espressiva (di sguardo, movimenti, tagli, ellissi, progressioni) della macchina da presa”. Robert Altman ha prodotto molto grande cinema lungo la sua lunga carriera. Ma è negli anni settanta che non ha sbagliato un colpo.
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