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Quindici forche per un assassino

Regia di Nunzio Malasomma vedi scheda film

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La recensione su Quindici forche per un assassino

di scapigliato
8 stelle

Il western all'italiana pretendeva, non senza successo, di postmodernizzare il genere, già di per sé modificato alla radice da Sergio Leone e Sergio Corbucci, introducendo elementi di per loro estranei all'immaginario western. Quindi non solo goticheggiando le ambientazioni, ma anche tinteggiando di giallo la trama e le svolte narrative. Ecco che Nunzio Malasomma, nato ben nel 1894, e qui al suo unico western, sa creare dapprima una trama senza fronzoli vari, ma secca e depurata di tutto tranne che dell'azione, e in più riesce a costruire una trama ad enigma, da crime-story, senza scadere nell'alieno. Così, tre giovani donne (madre e due figlie, di cui una prossima al matrimonio), vengono barbaramente uccise nel loro ranch mentre 15 uomini (sulla cassa del morto?) dormivano nella loro stalla. Scatta la caccia all'assassino, o meglio scatta il linciaggio degli uomini della cittadina di cui Aldo Sambrell e Andrea Bosic sono le due anime opposte. Il primo vuole farsi giustizia a tutti i costi, benchè non abbia moglie, il secondo invece, essendo il pastore del villaggio, vuole vederci chiaro, come lo sceriffo, e vuole dare ai 15 pistoleri il beneficio del dubbio ed un regolare processo. La regolarità della legge è uno dei temi e anche sottotemi di tutta l'epopea western, americana e non. Certo, noi italiani preferivamo vendette e ruberie varie, caccie all'oro e massacri, ma c'era chi aveva seminato alla lunga nel nostro SW anche queste riflessioni, più o meno riuscite.
Il film si distingue anche per una certa cattiveria, dove i protagonisti sono tutti dei cinghiali alle strette che sfoderano le zanne e sparano su chiunque, cattivi e non. I due protagonisti, Craig Hill e George Martin, sono infatti due ruoli oppositivi. Martin è un criminale a tutto tondo, Hill invece è una canaglia con il senso della giustizia: l'etica dello straniero che impose Sergio Leone. Anche tra la posse dei vendicatori e linciaggiatori troviamo uomini tra loro oppositivi, di vedute diverse che finiscono pure per ammazzarsi tra di loro. C’è infatti una sottile cattiveria, benchè non mutuata da un’estetica della violenza vera e propria, che serpeggia tra i personaggi e viene rappresentata dalla crudezza con cui il gesto giustizionalista viene perpetrato. Molto bella, in questo senso, la scena in cui muore il giovane ragazzo, amico dei cavalli, la cui morte costringe il vecchio amico a vendicarsi. Uscito con il trucco della bandiera bianca raggiunge la posse, per poi sparare tutti i colpi che li riesce, uccidendo pure il reverendo Ferguson interpretato da Bosic. Né quest’ultimo né il vecchio né il giovane ragazzo erano colpevoli di qualcosa, eppure vi hanno trovato la morte. Un fatalismo di cui il film è pieno, e che usa la messa in scena per rafforzarlo. Il ranch della vedova Cook, in cui trovano la morte le tre donne, ricorda molto la casa di Norman Bates di “Psycho”. E il cielo plumbeo, direi proprio nero, che sovrasta il ranch a inizio film quando arrivano gli uomini di Cassell (George Martin), è un nero presagio da cui non si scappa. Anche il finale, tra le infernali fiamme del fortino messicano in cui è assediata la cricca dei 15 uomini, ha sapori definitivisti, di apocalisse e di fatale capolinea. Da registrare che caratteristi come Aldo Sambrell, Andrea Bosic e Frank Braña trovano in “Quindici Forche Per un Assassino” largo spazio per la loro interpretazione, che va detto essere di gran carattere.

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