Regia di Eugène Green vedi scheda film
Il ritorno del raffinato autore Eugène Green avviene con un piccolo capolavoro. In soli cinquanta scarni minuti condensa dentro di sé il segreto di una vita che va al di là delle effimere tempistiche naturali. Per esprimersi attraverso una universalità in cui conta solo il presente, che unisce e appiana passato e futuro altrimenti inconciliabili.
Al 40° Torino Film Festival con il suo mediometraggio Le mur des morts, torna un ospite amato e abituale come Eugène Green che non perde occasione per dimostrarsi, ancora una volta, un autore colto e raffinato. Capace di filmare, con il suo stile contemplativo unico e rarefatto, riflessioni esistenziali e filosofiche che si rivelano impellenti e lungimiranti, oltre che preziose maestre di vita.
Il film è stato presentato nella rassegna cinefila Nuovimondi, che intende riprendere la indimenticata sezione Onde dell’era festivaliera torinese Martini, di cui Green è sempre stato uno degli ospiti più amati e celebrati.
Nell’agosto in cui Parigi si svuota di traffico e folla, il giovane e sensibile Arnaud (interpretato dall’espressivo Saia Hiriart) cammina inquieto lungo il marciapiede esterno al cimitero di Père Lachaise e si imbatte nel muro lungo il quale sono citati i nomi di molti parigini caduti durante la Prima Guerra Mondiale.
Soffermandosi casualmente con lo sguardo su un nome di una di queste vittime, gli si materializza nei panni di un coetaneo di nome Pierre (Edouard Sulpice), vissuto esattamente cent’anni prima di lui e morto per servire una patria che lo ha mandato al massacro.
Ecco allora che tra i due ragazzi, della stessa età ma di epoche diverse, si instaura un rapporto simbiotico, attraverso il quale il giovane dei nostri giorni riuscirà a fare da collegamento, per permettere che il giovane sacrificatosi per la patria possa comunicare ai parenti tutto ciò che la morte prematura non gli ha consentito di fare.
Il passato ed il futuro possono essere pensati solo come presente: il passato come «memoria», il futuro come «attesa», e la memoria e l’attesa sono entrambe fatti presenti. (Sant’Agostino)
Ogni volta che il grande autore ed esperto di epoca barocca Eugène Green torna a incantare con una sua opera cinematografica, il suo stile tutto personale e intenso ha il potere di incantare lo spettatore.
La saggezza dei suoi racconti morali si sviluppa attraverso la capacità di circondarsi di un cast ogni volta sorprendente. Interpreti dai volti espressivi e dallo sguardo che si rivolge direttamente al pubblico per condividere il messaggio pregnante che muove la vicenda.
Questa volta la tematica, oltremodo scottante, è quella del sacrificio imposto a tutti coloro che, chiamati alle armi durante le fasi cruciali della Grande Guerra, si sono trovati a morire barbaramente per una patria che ha solo saputo scaraventarli in trincea, a morire senza sapere nemmeno il perché.
Vite spezzate, famiglie lacerate e separate senza il tempo ed il modo di congedarsi da una vita che non meritava una fine così prematura e crudele.
Ecco allora che, materializzando, come solo il cinema può riuscire a fare, quella teoria così umanamente condivisibile del grande santo filosofo, le vicende rimaste in sospeso tra la vittima sacrificale e i propri affetti privati, vengono portate a compimento da una sorta di transfert dimensionale. Che lega due coetanei vissuti a cent’anni di distanza, ma uniti dall’unica dimensione che si sfaccetta nelle tre dimensioni temporali di cui sopra.
Ne scaturisce un’altra opera incantevole , commovente e pregna di significati, che condensa nei suoi scarni cinquanta minuti di durata, tutta la potenza di un sentimento rimasto inespresso dalle crudeli circostanze della vita. Ma portato a diretto compimento dal potere di una intesa che va al di là dei limiti terreni umanamente comprensibili.
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