Regia di Federico Fellini vedi scheda film
L’eleganza del Caos, un accorgimento stilistico stupefacente di cui Federico Fellini può considerarsi il creatore e il più valido cantore. Movimenti di camera ci accompagnano, da una distanza davvero perfetta che evita il moralismo e la morbosità, in tutti quei movimenti, in quelle coreografie così articolate e così stupende. Questa eleganza, così profondamente ricercata e ricca di motivazioni tematiche, sprizza da ogni singolo dettaglio di questa indimenticabile pellicola. Lo stesso titolo ne è colmo, creando un’evidente contraddizione o, meglio, creando una sottile differenziazione fra il concetto di felicità e il concetto stesso di dolcezza. La dolcezza di questa vita messa in scena dal maestro riminese è un lasciarsi andare incondizionatamente a stimoli incontrollati, a voglie animalesche, all’ostentazione di un lusso che si fa oblio e dimenticanza di una condizione esistenziale profonda e ben più povera della dimensione materiale: aggirandosi con sguardo critico ma quasi “tentato” nelle strade e nelle lussuose case dei suoi personaggi, Fellini racconta come l’istinto possa essere illusione, e di benessere e di felicità e di realizzazione personale, nelle menti di uomini privi di ogni valore, sia nella dimensione borghese sia nell’ignoranza della classe proletaria. Di Roma e dell’Italia, come dell’uomo in generale, si sono dimenticati valori astratti e profondi, quelle certezze spirituali a cui dovremmo per storia sentirci più legati, e che invece anche oggi (e ce l’ha detto Sorrentino, ma con esiti differenti) allontaniamo sentendocene estranei, circondati dal benessere in un caso, da pochi stimoli culturali dall’altro. Seguaci comunque di un dio dell’autodistruzione.
Lo sguardo di Fellini, come è già stato detto, è ricchissimo, elegante, ma c’è anche da dire che realizza uno splendido compromesso fra ricchezza formale e illustrazione quasi cronachistica, come se il protagonista, Marcello, giornalista di professione, incarnasse il suo sguardo (in un lento processo a climax che porterà Fellini alla totale identificazione nel suo protagonista in 8 ½), e cercasse di cogliere il più possibile, tentato e, nel caso di Marcello stesso, trascinato dal mondo di questa Dolce(amara) Vita, per dimenticare le proprie frustrazioni e la propria mediocrità, paradossalmente per essere più coerente con essa stessa, visto come si comporta con la fidanzata, a cui non ha intenzione di chiedere la mano, o come si comporta con le donne, attrazioni profonde e irrinunciabili, ma che lo rendono sempre più debole e vittima di sé stesso. Nessun uomo è cattivo di per sé, né buono: è il regno dell’ipocrisia, della superficie, della disperazione, dell’autoannientamento. C’è chi lo ammette (Steiner) e chi no (Sylvia), ma sono tutti dei miserabili coscienti della propria prossima fine, che cercano o in lussureggianti danze affollate o nel sesso o in festini orgiastici di arraffare quel poco che rimane. L’approccio a qualsiasi stimolo diventa superficiale, come la religione o in generale i fatti tragici della vita, tutto diventa argomento su cui speculare in senso mediatico, e il risultato sono strade infestate da cartelli pubblicitari, la ricerca dello scandalo, la bestialità. L’uomo si riduce a uno stato di civilizzazione che non ha più niente da offrire, in cui la vita “tranquilla” e familiare si fa densa di fantasmi e di disperazione (la storia tragica di Steiner, il rapporto fra Sylvia e suo marito, quello tra Marcello e suo padre), e l’unico modo per vivere è la contraddizione, il dimenticare, il far finta di nulla, finché tutto finirà. È un mostro, l’Italia del boom economico, più morto che vivo, che non smette mai di fissare. È indifferente su chi può mangiare, su cosa può nutrirsi, proprio come un animale. Marcello ne è al confine, perché ne vive i vizi e lo dimostra a pieno, girovagando, cambiando destinazione, privandosi di una meta fissa e di una condotta sempre uguale, offrendosi ai nostri occhi come un personaggio che sa già di stare perdendo, e che conduce una vita che lo dispera, ma che sembra, in questa Roma apocalittica, com’è apocalittico l’ultimo festino del film, l’unico atteggiamento dignitoso. È per questo che anche possedendo tutti quegli aspetti negativi Marcello si salva ai nostri occhi, è l’unico a salvarsi. Perché la ragazzina del ristorante, quella dell’ultima immagine, l’innocenza, non è un vero personaggio, ma un simbolo vero e concreto, una possibilità che non avvertiamo più, ostacolati dal vento e dalla lontananza, raggiungibile, ma poco facile. Forse è qualcosa di troppo astratto: Fellini non potrà rinunciare al fascino della mediocrità. L’innocenza rimane lontana, almeno perora. In 8 ½, nell’arte, allora sì che abbiamo nel sogno concreto della Vita la possibilità della felicità. Senza arte, non andiamo da nessuna parte.
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