Regia di Federico Fellini vedi scheda film
Quando si definisce La dolce vita un affresco, non è riferibile tanto al suoi notevoli valori intuitivi e realizzativi, ma alla sua caratteristica durevole e inscalfibile che rende il film di Fellini una vera e propria opera assoluta sotto ogni punto di vista. Cinema d’autore e di richiamo del grande pubblico, dai significati profondi e dai toni che vanno dalla commedia alla tragedia, riesce a far emergere contenuti contraddittori profondi e fortemente radicati nello scenario culturale e sociale italiano, usando un linguaggio né costruito né esclusivo. 1) Il supporto. E’ la società italiana del 1960 agli inizi del boom economico, ma con le spalle ancora indolenzite dal lavoro e dalla cultura contadina, il culo dolorante dell’aristocrazia e del clero nell’ansia di vedere cambiato il proprio peso specifico, il fiatone senza ripari e senza valori delle nuove classi borghesi. 2)L’intonaco. E’ il materiale umano, simboleggiato da Marcello (Mastroianni) giornalista e scrittore mancato che attraversa con gli occhi del regista diversi scenari della Roma capitale, la città dello spettacolo che ne crea uno nuovo fagocitando i miti e le debolezze della nostra cultura, sottolineando la decadenza e il vuoto morale che si insinua mortalmente nelle sue viscere. 3) Il colore. Sono gli stati d’animo, i pensieri, i comportamenti dei personaggi, a grandi linee abbastanza comuni anche se appartenenti a diversi strati sociali. Le differenze sono minime, rare e talvolta perdenti. Sono differenti Marcello, ma la sua trasformazione sarà quanto mai omologata e disperata, lo scrittore - pensatore e quanto mai teorico Steiner, Paola la ragazzina che lavora alla trattoria della spiaggia protagonista del bel finale. Il resto è rappresentazione del genere umano avviato al fallimento, il film smaschera e mette a nudo la crisi dei valori tradizionali, mostra i meccanismi interiori ed esteriori che non hanno permesso al nostro tessuto sociale di crescere mentalmente, culturalmente. Roma diventa il simbolo della superficialità e dell’apparenza. Intorno e dentro c’è un mondo che cambia ma che dal quale nessuno è più in grado di coglierne i significati, si esaltano i bisogni, le materialità, i costumi facili e dell’amoralità si fa una bandiera, salvo poi intimamente soffrirne fino allo spasimo senza capirne i motivi. Fellini ai massimi vertici della sua opera mette costantemente davanti ai suoi personaggi uno specchio dove nessuno ha il coraggio di riconoscersi o di dichiararsi, nessuno misura e individua le logiche di potere che s’instaurano fra le persone accontentandosi di far parte a qualsiasi livello di quell’edonismo consumistico e dipendente denunciato soprattutto da PP Pasolini. Il film assume valore con il passare del tempo e oggi è più che mai attuale. Da vedere e rivedere, paradossalmente la scena simbolo della fontana con il duo Ekberg-Mastroianni è uno dei passaggi meno intensi del film e forse significa qualcosa se è quella che soprattutto si ricorda…
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