Regia di Federico Fellini vedi scheda film
La decadenza è un sublime turbine fatto di niente: è una passione che diventa aria e una memoria che si scioglie in acqua. Nella dolce vita, alla ricerca della felicità si sostituisce un astratto vagheggiamento stilistico che rimanda sempre ad altro, ad un invisibile (e forse impossibile) altrove: un atteggiamento che si chiama esotismo, occultismo o superstizione, ed è sempre un’irrazionale e disperata forma di idolatria per ciò che è nuovo, diverso ed irraggiungibile, come una diva americana, un ballerina francese, la Madonna, la lingua sanscrita, oppure una dimensione trascendente in cui regnino la perfezione e la libertà assoluta. Intanto la miseria del presente si increspa in riccioli di frivolezza, in boutade impastate di vuoto, che sono solo l’eccentrica imbellettatura della mancanza di senso. Marcello Rubini, in quanto giornalista, dovrebbe dedicarsi a documentare la realtà: invece passa la sua vita ad inseguire sogni da fotografare, a caccia di quelle immagini in cui, sulle riviste patinate, il voyeurismo popolare si incontra con la comune smania di apparire. E intanto frequenta la cosiddetta bella società, per sfuggire alla solitudine, fingendo di partecipare volentieri a quel vacuo show da cui la sua sete di pace e sobrietà tenderebbe a sospingerlo via. In un’ambientazione fellinianamente dominata da lustrini, palloncini, svolazzi di piume e di tessuti, il mondo è in mano ad imprenditori gaudenti (il padre di Marcello, produttore di champagne), ad intellettuali imborghesiti, oppure dediti a derive utopiste (Steiner ed i suoi amici), e ad un’aristocrazia divisa tra noia e corruzione (l’entourage di Maddalena). Tramontati i tradizionali valori della famiglia e del matrimonio, resta solo un collettivo delirio apparentemente allegro, però privo di gioia, perché senza ragione, come una festa in cui manchi il festeggiato e che quindi, in un attimo, può tranquillamente volgere in tragedia. Con i soliti riti della mondanità si celebra una vita ormai ridotta ad un discorso di cui si è perso il filo, e in cui tutto, quindi, diventa incomprensibile ed incomunicabile. Tanto vale, allora, abbandonarsi agli eventi che accadono, abbracciare le occasioni che capitano, brandire gli impulsi del momento come bandiere di una trasgressione creativa che è, di per sé, ebbrezza ed oblio. La celebre sequenza in cui Sylvia, nel suo vagabondare notturno, si ritrova davanti alla fontana di Trevi e vi si tuffa, e poi invita Marcello, che subito risponde al suo richiamo, ha consegnato alla storia l’emblematica sintesi di questo atteggiamento: un edonismo di strada, privo di supporto filosofico, che riduce la grandezza e la bellezza di un’eredità culturale ad un momentaneo e spettacolare trastullo. La scena è divenuta immortale, e questo, nella memoria collettiva, ha cancellato il suo aspetto più importante, che è proprio la sua fugacità: le luci e i getti d’acqua si spengono, dopo pochi secondi, e l’incanto si spezza in un freddo ed ombroso silenzio. Del resto la morte arriva crudele ed improvvisa, per molti personaggi del film, e giunge proprio nel momento in cui la speranza sboccia e i desideri sembrano sul punto di realizzarsi: il malato muore in attesa di un miracolo divino, l’uomo di mezz’età viene stroncato al culmine di una serata a base di alcol e donne, il padre di famiglia, affermato e benestante, diventa improvvisamente autore di un omicidio-suicidio. Ogni momento saliente, nel film, ha il carattere di una folgorazione, di una visione troppo breve ed intensa per poter essere reale, come l’apparizione della Vergine o il passaggio di un fantasma: la sensazione è un flash che illumina istantaneamente la scena, ma poi svanisce nel buio, come i riflettori mandati in cortocircuito dalla pioggia, o uno spogliarello interrotto da un ospite inatteso. Il mostro marino portato a riva dai pescatori nel finale è forse vero, forse finto, forse vivo, forse morto, e non si sa quanto sia effettivamente buono da mangiare, esattamente come il miraggio della ricchezza, che riempie gli occhi e la fantasia, ma non è in grado di colmare i nostri giorni di una sostanza autentica e vitale. L’universo pulsa di suggestioni, però il suo ritmo, incostante ed avventato, non è quello regolare e duraturo del battito del cuore. Questo pessimismo si traduce in una scelta estetica che fa de La dolce vita una storia disorganica, spalmata a macchia di leopardo sullo sfondo di una Roma dall’identità sfocata e frammentaria. Il ritratto che Fellini dipinge della società del benessere ha l’anonima ed incerta consistenza di una tavolozza in scala di grigi: le tonalità si mescolano – seguendo l’impressionante fluidità della sceneggiatura – ed intrecciano vorticosamente i loro rivoli, in quello che inizialmente sembra il tripudio della leggerezza e, invece, col tempo si rivela una tetra filastrocca che scandisce il funesto procedere del caso.
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