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La stanza del figlio

Regia di Nanni Moretti vedi scheda film

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La recensione su La stanza del figlio

di FilmTv Rivista
8 stelle

Corridoi, che attraversano la casa o s’incuneano nella scuola. Il porto di Ancona, un viale, le strade dove va a correre il protagonista. Il carrello segue o affianca Nanni Moretti nelle giornate normali che aprono il suo film: la storia quotidiana di una famiglia, bella e felice, moderatamente nevrotica, capace ancora di comunicare con un sorriso, con un gesto, magari con una corsa. Padri e figli: rapporti fatti di delicate soppressioni degli acuti. Il padre, psicanalista, sopprime le nevrosi che condivide con i suoi pazienti, i figli adattano il linguaggio, smorzano gli amici, ascoltano inviti (come quello alla competitività) che probabilmente non seguiranno mai. Le disarmonie di troppe pazzie e paure (tutte in fila, sul lettino o sulla poltrona dello psicanalista) sembrano trovare un punto saldo armonico: “Insieme a te non ci sto più”, canta Caterina Caselli dal registratore in auto, Moretti si unisce, poi tutti gli altri, in una di quelle piccole scene di serenità assoluta che il regista sa cogliere così bene, una partita a pallone o “Ritornerai” di Bruno Lauzi, in una chiesa. Ma quei corridoi e quei carrelli non sono là per caso o per vezzo. Sono un indizio drammaturgico preciso. Una morte e tutto s’incrina, sprofonda, e tutto quello che c’era prima, gli stessi luoghi, gli stessi gesti, continua a esistere solo all’insegna del dolore. Assoluto, assordante, come quel rumore che chiunque abbia sentito una volta nella vita non dimenticherà mai più: le viti saldate ai coperchi delle bare. “La stanza del figlio” è fatto di dolore, vissuto un minuto dietro l’altro, mentre la vita di tutti i giorni finge di andare avanti, e invece si è fermata là, poche ore prima di quella morte, quella domenica, quando tutto poteva cambiare. E la macchina da presa si attacca ai personaggi, perso ognuno nella sua maniera tremenda di vivere la sofferenza: le lacrime trattenute di una ragazzina, l’urlo infinito della Morante sul letto, il rimbombo di un luna park notturno e la faccia sbarrata del padre che cerca invano di scaricarsi nella violenza delle “gabbie”. Non c’è scampo: senza rinunciare a se stesso, Nanni Moretti ci trascina in un abisso di disperazione impotente, nella sensazione fisica della perdita, nel consumarsi di giorni e momenti senza risposta. Attaccato alla realtà come forse non è mai stato, non più generazionale, parla la lingua di tutti. Corde toccate in “Caro diario” e “La messa è finita”, che qui risuonano della forma perfetta della semplicità. La semplicità con cui un giorno arriva la giovane Arianna con delle foto di Andrea e, forse, un nuovo fidanzato, e con cui, sulla voce di Brian Eno che canta “By the River”, si può immaginare di ricominciare a vivere. Un cantante straniero per uno che ha sempre voluto ascoltare solo musica italiana: per restare vicini ai figli perduti e sconosciuti, per «imparare ad aspettare, imparare a oziare», imparare a “farsi vivere” dalla vita.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 12 del 2001

Autore: Emanuela Martini

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