Regia di Mohsen Makhmalbaf vedi scheda film
Quando uscì in Italia l’anno scorso era un film attualissimo, perché ambientato in Afghanistan e perché distribuito dopo i fatti dell’11 settembre. Non parla comunque dell’attacco americano, né di Bin Laden, ma delle condizioni a cui sono assoggettate le donne di questo paese dal (ormai ex) regime dei Talebani. La storia prende spunto da ciò che ha tentato di fare la giornalista afgana, ma residente da anni in canada, Niloufar Pazira: dopo aver ricevuto dall’Afghanistan una lettera di una amica che, vinta da una profonda depressione a causa delle sue condizioni di vita, aveva deciso di suicidarsi, la giornalista ha tentato di entrare in quei territori blindati, ma non vi è riuscita e non ha quindi mai raggiunto la sua amica. L’iraniano Mohsen Makhmalbaf parte da questo spunto ed immagina invece il viaggio di una giornalista (interpretata dalla stessa Niloufar Pazira) che riesce ad entrare nella nazione presidiata dai Talebani e a compiere il suo viaggio.
Il regista iraniano mantiene intatto il suo stile poetico, ma questa volta inserisce dettagli francamente eccessivi. Non si spiega per esempio la necessità di iniziare il film con un brevissimo frammento del finale e soprattutto stride, in modo addirittura frastornante, l’idea del medico di colore d’origini statunitensi che s’è mischiato agli afgani, perché in cerca di Dio, e non è mai stato scoperto dai Talebani grazie ad una barba finta (tra l’altro, facendo un po’ d’attenzione, si ha il sospetto che la barba, benché ben fatta, sia un tantino posticcia). Ci sono poi brevi momenti umoristici davvero di troppo in una vicenda che dovrebbe essere solo dramma, e vi sono anche alcuni squilibri narrativi. Il film, seguendo l’andamento casuale tipico del road movie, si barcamena un po’ a casaccio tra una visione documentaristica delle condizioni dell’Afghanistan e la vicenda personale della giornalista, senza sapere cosa scegliere. In questo modo finiscee inevitabilmente col catturare il suo pubblico soprattutto nei momenti “documentaristici”, ponendo così in secondo piano la missione della protagonista. Naturalmente non mancano i pregi: innanzi tutto, benché molti abbiano detto il contrario, non sono così eccessive le ricerche simboliche del regista (forse la più pesante è quella del medico americano che potrebbe rappresentare una ricerca di uguaglianza e convivenza oggi più che mai impossibile) e nemmeno le immagini “belle”, che sono poi quelle dei deserti e della processione delle donne (tra cui si celano delle finte donne) coperte da burka colorati. Il ritmo poi non è mai eccessivamente lento, forse anche per lo squilibrio che esiste tra vicenda personale e immagine documentaristica, e dunque ciò permette una visione tranquilla un po’ per tutto il pubblico, anche (e forse soprattutto) per chi non ha mai avuto a che fare con Makhmalbaf & co. Ma la cosa che colpisce maggiormente è la protagonista Niloufar Pazira: una vera giornalista che è in grado di rendere se stessa sullo schermo sottolineando le sue differenze di donna occidentalizzata, ma senza marcarle eccessivamente. Inoltre Niloufar Pazira ha il dono di un viso “anticamente bello”, incastonato da due occhi azzurri, che sa esprimere una grande serenità. Sarebbe interessante rivederla in seguito in altri film.
Un ultimo discorso a favore del film è naturalmente quello che riguarda il suo impegno. Ciò che mostra è un mondo lontano anni luce da qualsiasi immaginazone: i mutilati che inseguono protesi lanciate dal cielo, la frastornante scuola coranica, le donne coperte dalla testa ai piedi, le sconcertanti visite mediche (drammaticamente surreali) e l’ultima bellissima (perché terribile) soggettiva attraverso il burka. Tutte cose che sono in grado di scuotere qualunque coscienza che sia davvero tale. Chissà cosa potrebbero pensare i Talebani, nonché Bin Laden, di questo film? Chissà cosa pensa George W. Bush di Viaggio a Kandahar?
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