Regia di Riccardo Milani vedi scheda film
C'è il Gigi Riva tre volte capocannoniere del campionato di calcio di serie A, quello che - a cinquant'anni di distanza - detiene ancora il record di marcature in nazionale (35 reti in 43 partite), quello che - intervistato a seguito dei due gravissimi incidenti, il secondo dei quali ne fermò la carriera a soli 32 anni - parlava semplicemente di "rischi del mestiere". E c'è il Gigi Riva uomo, l'incarnazione stessa della coerenza, il ragazzo partito da un paesino lombardo e finito in Sardegna, quando l'isola era considerata luogo di punizione. Ed è soprattutto su questa seconda dimensione - oltre che sulle strabilianti imprese sportive - che si concentra il documentario fluviale di Riccardo Milani (158 minuti), che mette a fuoco il rapporto tra Riva e la Sardegna, sua terra d'elezione, quella a cui, a suon di gol, nel 1970 consegnò il primo e unico scudetto, in un'età dell'oro in cui il calcio era profondamente diverso da quello di oggi. Blandito dalle grandi squadre del Nord, Riva rifiutò ingaggi miliardari, trovando in quel luogo il suo rifugio, forse anche per quel carattere così insulare, appartato, schivo (le riprese della sua testimonianza lo vedono significativamente quasi sempre in penombra, la sigaretta perennemente in mano). Una terra che fece di lui un eroe verso il quale non c'è un solo sardo che non gli sia riconoscente o una ragazza che non se ne sia innamorata, anche per via di una bellezza apollinea. L'aspetto più appassionante del film è proprio quello capace di restituire l'umanità, l'integrità, la modestia e soprattutto la sobrietà estrema di un uomo che ha fatto del rigore e della coerenza la sua cifra esistenziale, pure a costo di una melanconia ben visibile nel modo in cui, nel finale, gli viene estorto un sorriso. Peccato che il film assembli in maniera dispersiva troppo materiale: i canti tradizionali sardi dei tenores, gli inserti fiction che ricostruiscono l'infanzia del protagonista, i balli e le maschere locali, la musica (bellissima) di Paolo Fresu e quella di De André, l'eccesso di retorica. Così come è infelice la scelta stilistica di non accompagnare le immancabili interviste a opportune didascalie sui diversi personaggi, tutte raccolte alla fine del film. Che comunque restituisce il ritratto a tutto tondo di "rombo di tuono" (dall'epiteto che gli diede un ammirato Gianni Brera), un uomo talmente modesto da scegliere di vivere in un condominio. Lui, che ha fatto la storia del calcio italiano.
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