Regia di Ken Loach vedi scheda film
La classe operaia non va più in Paradiso. Non può permettersi nemmeno di andare in treno. È morta. Una morte bianca causata dalla flessibilità, dagli scivoli, dal lavoro interinale, dai subappalti, dalla fine della cultura del posto fisso, dagli incentivi, dallo sgretolarsi di garanzie e statuti dei lavoratori. Ken Loach, dopo la trasferta tra gli immigrati addetti alla pulizia degli uffici di Los Angeles, torna in Inghilterra con l’aiuto della sceneggiatura scritta da Rob Dawner, un ex ferroviere, morto nel febbraio di quest’anno di un cancro contratto a causa dell’amianto, si sposta in uno scalo ferroviario, in un deposito dello Yorkshire nell’anno in cui le Ferrovie Britanniche sono state privatizzate. Il regista ragiona rispetto ai propri film come si fa con un “genere” che ha superato molti tagliandi per la manutenzione ed è abbastanza rigido. Protagonista collettivo, orizzontalità della trama, sobrietà nel descrivere gli affetti e le emozioni, capacità di fissare una fase di transizione psicologica e sociale dei suoi personaggi, fedeltà agli interni privati e pubblici (pub e friggitorie), a certi scorci di periferia, recitazione intonata con alcune parentesi lievi. I suoi film non stupiscono più, ma non dispiacciono. Con le loro belle facce smarrite o arrabbiate. Un universo di moduli, colloqui, trattative, sussidi, amori precari. Opere non addomesticate. Sit-drammi ex proletari. Il risultato, questa volta, è affievolito dall’assenza di attori più incisivi.
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