Regia di Michael Mann vedi scheda film
Otto anni dopo Blackhat Michael Mann (Manhunter, L'ultimo dei Mohicani, Heat, Ali, Collateral, Nemico pubblico) torna alla regia con un progetto che accarezzava ormai da tempo e ispirato al libro biografico Enzo Ferrari: The Man and the Machine (Ferrari. L’uomo, l’auto, il mito - Ed. Garzanti) del giornalista americano Brock Yates, con una sceneggiatura scritta insieme a Troy Kennedy Martin (The Italian Job, Danko, Red Dust, Fuori controllo), morto nel 2009, e con un budget di 90 milioni di dollari.
Girato completamente in Italia (costumi di Massimo Cantini Parrini, hair & make-up Aldo Signoretti, montaggio del due volte premio Oscar Pietro Scalia), l’ultimo lavoro di Mann non è un vero biopic quanto piuttosto una “tranche de vie” portato su schermo per raccontare l’anno più difficile nella vita del Drake, un’estate italiana del 1957 tra corse automobilistiche, le sue vicissitudini familiari e quelle finanziare e industriali di una traballante Ferrari sull’orlo del fallimento e lo fa attraverso un racconto cupo e ansiogeno, a tratti appena abbozzato o anche calligrafico ma che si scatena in tutto il suo vigore registico e visivo nell’avvincente corsa automobilistica della Mille Miglia, il percorso panoramico che per anni ha permesso alle macchine da corsa di correre a 200 chilometri orari in mezzo ai centri abitati di città come Roma, Ravenna e Milano, e gara proibita dall’anno successivo proprio perché in quell’anno morirono in un incidente a Guidizzolo (Brescia) 11 persone, a partire proprio da due piloti della Ferrari (lo spagnolo Alfonso de Portago e l’americano Edmund Gurner Nelson) e altri nove civili, tra cui cinque bambini.
L’ombra della mortalità si riverbera infatti in ogni inquadratura (merito anche della fotografia di Erik Messerschmidt) e, forse, non potrebbe essere altrimenti visto che il regista americano mostra di privilegiarne fin da subito il dramma familiare come anche il ritratto sfaccettato di un uomo che non riesce a dividere la sua vita dalle sue stesse creature, mischiando l’uomo Ferrari con il simbolo Ferrari, e non poteva fare diversamente, probabilmente, ma ponendo l’accento soprattutto sul suo dramma umano mentre la vicenda storica è soltanto di contorno al dolore creato dalla perdita di un figlio che, come una malattia, lo permea in ogni sua decisione, in ogni suo gesto e in ogni sguardo schermato al mondo dai suoi occhiali (Il Commendatore era solito dire «non voglio dare agli altri la sensazione di sapere come sono fatto dentro» e per questo sfoggiava occhiali dalle lenti nere per mostrarsi in pubblico).
Prima viene Ferrari, soltanto dopo Enzo.
E nelle mani di Mann il Drake diventa davvero un “Saturno che divora i suoi figli” (naturali come anche le sue “creazioni” di metallo e i suoi stessi piloti), padrone delle proprie ossessioni soltanto nella dimensione della velocità più estrema in un ideale romantico (ma reale?) per cui “Ferrari non corre per poter vendere macchine ma vende macchine per poter correre” e il cui unico scopo è sfidare i limiti umani, vivere il presente ed essere davvero libero.
Dominare la strada voleva dire dominare la morte (e i piloti questo lo sapevano bene, in quegli anni non esistevano neppure le cinture di sicurezza) e dominare la morte significava anche convivere con la paura (e i propri limiti) perché solo così (esorcizzandola) si poteva vincere, e vivere quindi sul serio (“una terribile gioia”).
Inizialmente Enzo doveva essere interpretato prima da Christian Bale e poi da Hugh Jackman, alla fine il ruolo viene affidato invece ad Adam Driver, che dopo Maurizio Gucci in House of Gucci per Ridley Scott sembra aver preso gusto ad interpretare imprenditori (di successo) italiani, che fa del suo Ferrari un sintomatico mistero, marmoreo nel suo tumulto interiore, giocando di sottrazione e accentuandone la maschera nascosta dietro ai suoi occhiali neri.
Con Driver abbiamo una meravigliosa e intensa Penélope Cruz insieme a Shailene Woodley, Patrick Dempsey, Gabriel Leone, Sarah Gadon, Jack O'Connell, Valentina Bellè, Lino Musella, Ben Collins e Tommaso Basili.
VOTO: 7
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