Regia di Michael Mann vedi scheda film
Non capito e poco compreso, come del resto gran parte del cinema di Michael Mann; questo “Ferrari” (2023), ad un occhio superficiale, può sembrare una sbandata del regista in territori lontani dai thriller metropolitani, per cui si è fatto un nome.
Ciò comporterebbe un errore madornale di giudizio, in quanto l’aspetto ambientale è solo il palcoscenico, di un cinema “sentimentale” come non se ne producono più ad Hollywood, estremizzando i legami romantici, in una cupa atmosfera mortifera, che accompagna ogni singolo frame della pellicola.
Mann assieme allo sceneggiatore Troy Kennedy-Martin, segue le tendenze odierne dei biopic odierni, illustrando uno spaccato di vita di Enzo Ferrari (Adam Driver), molto ridotto temporalmente. Il grande sogno di un pilota promettente, s’interruppe improvvisamente al GP di Lione del 1924, rifiutandosi di prenderne parte, per cause mai chiarite da lui stesso ed oggetto di speculazioni irrisolte, che vanno dalla paura di non reggere il passo con i numerosi campioni presenti, fino alla pioggia battente che rendeva la pista difficile da affrontate, segnandone di fatto la fine della sua carriera.
Da quel gran rifiuto, Ferrari costruì tra molti sacrifici un’azienda nel modenese, il cui nome tutt’oggi sa di mito intramontabile.
Tutto questo nel 1957, era ad un passo dalla fine, causa ingenti debiti della società, dedita ad una produzione dai metodi artigianali, ma poco remunerativa finanziariamente in quanto focalizzata a guadagnare per correre e non viceversa.
Mann non cerca alcun legame empatico con Enzo Ferrari.
La sua figura misteriosa, celata spesso dagli occhiali da sole neri, risulta sempre ammantata da un alone di impenetrabilità, sia da parte degli altri personaggi, che dello spettatore in sala. Testardamente ancorato alle sue arcaiche convinzioni - quando si era capito che il motore posteriore avrebbe pensionato quello anteriore lui rispondeva “sono i buoi che trainano il carro” -, marito infedele, ossessionato dal marchio che porta il proprio nome e quindi dalla propria immagine al di sopra dei piloti stessi, visti sia come meri esecutori della propria gloria quanto cavalieri del rischio, pronti a morire ogni volta che sfrecciano su una delle sue macchine.
Sfuggendo da ogni facile agiografia, così come da sottese glorificazioni di un uomo i cui difetti verrebbero scusati in virtù del suo genio imprenditoriale; Mann attraverso l’alienazione dell’uomo Ferrari da tutto ciò, che esuli dal proprio nome sulle auto rosse vincenti, disvela il motivo effettivo della leggenda.
A riprova di come il regista non abbia perso per nulla la mano, risulta sufficiente la lunga sequenza muta iniziale, di Ferrari in procinto di lasciare la casa dell’amante, per mettersi in macchina e ritornale alla propria dimora “ufficiale” in cui l’attende la moglie Laura (Penelope Cruz). Sin da subito Mann, unisce il binomio sentimento-morte, la cui sinergia pervade il corso della narrazione, trovando la polarizzazione privata in Ferrari-Laura, una coppia il cui amore è terminato quanto ucciso dalla morte del loro figlio Dino, mentre nel pubblico nell’imprimibile nome di quelle auto, il cui colore rosso, psicanalizza la passione della velocità estrema, dalle conclusioni spesso mortali.
Come Ferrari nel privato ha “sacrificato” il figlio legittimo irrimediabilmente condannato dalla malattia auto degenerativa, a favore del tanto agognato erede, ma illegittimo, Pietro, avuto con l’amante Lina Lardi (Shailene Woodley). Per tale ambizione della vittoria a tutti i costi, è divenuto secondo la stampa un “Saturno che divora i propri figli”, trasfigurando le sue macchine da corsa, in bare di metallo con ruote, pronte a fagocitare piloti su piloti.
Nel dolore intimo di un uomo incapace di esternare qualsiasi emozione quanto impossibilitato a costruire una normale famiglia stabile - concetto precluso ai personaggi di Mann -, il mausoleo fisico in cui ogni giorno si reca da un anno per onorare il figlio/erede prematuramente scomparso, diviene la sorda cupola in cui isolarsi da una morte onnipresente. Dino (fratello e figlio), Varzi, Castellotti e De Portago. Privato e lavoro s’intrecciano nel percorso di vita intrapreso, i cui fantasmi del passato, si uniscono ai morti viventi del presente come Peter Collins (morto al GP di Germania l’anno dopo), oppure Von Trips (morto al GP di Monza 1961 a causa di un incidente con Jim Clark, mentre era ad un passo dal diventare campione del mondo), in una passione a folle velocità, in cui la stessa corsa per la vita, diventa in realtà un correre all’impazzata contro la sconfitta stessa, come la stessa inquadratura finale suggerisce in una camminata verso l’ineluttabile morte.
Ricco di invenzioni in tal senso, più che nella sequenza del teatro, che rimembra dolori passati o della caduta del bozzettismo superficiale dato dal colpo di pistola sparato dalla moglie contro il marito fedifrago, il genio registico si eleva nella staticità insostenibile del lunghissimo primo piano di Penelope Cruz, al cimitero innanzi alla lapide del figlio. La macchina da presa ne coglie la vasta gamma espressiva, mentre in precedenza il cineasta aveva optato per inquadrate il volto di Adam Driver, in un’alternanza di riprese frontali e laterali, come se lo stesso straniamento dell’uomo, fosse da impedimento nel provare un sentito dolore.
Pure nel dinamismo della seconda parte, data dalla sequenza d’antologia della Mille Miglia, si conferma l’estrema abilità tecnica del regista nel rappresentare l’azione pura, grazie all’esaltante montaggio visivo di Pietro Scalia, unito al rombo sonoro dei motori bestiali di quelle macchine, che non perdonano nulla.
Michael Mann ricostruisce perfettamente l’atmosfera di una corsa dell’epoca, dove i piloti erano veri e propri cavalieri del rischio. La guida era molto “fisica” ed il controllo delle auto estremamente complesso quanto sfiancante.
Le corse si svolgevano con poche protezioni personali, su asfalti sconnessi e con misure di sicurezza inesistenti, girando tra massi, case ed alberi ai lati delle strade. Un’organizzazione molto casereccia e ben poco professionale, che provocava tragedie a ripetizione ad ogni stagione, dagli esiti devastanti.
In proposito il figlio Pietro Ferrari disse “Ogni volta che succedeva un incidente mortale, mio padre si chiedeva se era lecito continuare, ma poi l'ha sempre fatto per il bene della sua azienda".
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