Regia di Joseph Warren (Giuseppe Vari) vedi scheda film
Con un messicanaccio come Claudio Undari il film non poteva che essere spassoso. Infatti lo è. Ad arricchirlo, ovviamente, l’abilità di Giuseppe Vari, uno dei “secondi” tra i migliori registi del genere. Il film è ambientato in un West autunnale e sepolcrale, segnato da un ambiente povero, morto e rovinato, e ritmato sulle note dolenti dell’immaginario religioso con tanto di bellissime catacombe, quelle di Salone usate in tanti pepla e anche – dice De Zigno – in alcune scene estremamente violente e poi tagliate de Il Buono, il Brutto, il Cattivo. L’iconografia in un film conta, e a volte ne è il valore aggiunto senza il quale il film non avrebbe quello status di culto che gli dà gloria. Qui, Vari è misurato, quindi bravo, ad orchestrare una serie di elementi di per sé bizzarri, come appunto tutta l’iconografia mortuaria, che possono anche apparire ridicoli se usati senza cognizione e misura. Parte integrante del profilmico sono anche i personaggi con le loro caratterizzazioni. Ad un trio di messicanacci dai nomi davvero ricercati come Munguya, Garrincha e Murienda – nomi e fonie di origine africana e brasiliana -, a cui fin da subito verrà a mancare il terzo, si aggiunge il silenzioso pistolero di marmo interpretato da Anthony Ghidra. É lui a uccidere i suoi rivali con il buco in fronte del titolo. Ad unirli è la ricerca del tesoro di Santana, generale messicano che fuggendo da Alamo s’è rifugiato nel monastero che ospita Ghidra e in cui è ambientato il lungo e funereo incipit. I tre avventurieri non lo sanno ancora, ma è proprio nel monastero che Santana ha nascosto l’oro, ma prima di arrivarvi affroneranno le scaramucce che ogni copione rispetta. Ciò che è notevole in Giuseppe Vari è come sappia, nonostante uno sguardo tradizionale e istituzionale, a restituire allo spettatore un film in cui l’elemento iconografico è superiore a quello narrativo. Tant’è che come le tre carte siano arrivate ai tre bandidos non ci viene detto, ma anche se occultiamo questa imprecisazione la trama in sé non sveglia le nostre corde emotive come invece fanno gli elementi, personaggi e situazioni, che compongono il film. Se a volte la pellicola pecca di legnosità, ed una certa facilità è ravvisabile in alcune modulazioni a cui si è cercato di sopperire con la lentezza funeraria di tante scene anche di raccordo per dar loro un non so chè di leoniano, il prodotto finale è certamente tra i più suggestivi dello Spagowestern anni ’60, giacché il Trinità del ’71 segnerà i futuri anni western. Ascrivibile in extremis al filone così detto gotico, per via più del profilmico che del filmico – che è poi l’aspetto determinante -, la pellicola di Giuseppe Vari gioca non poco sulle atmosfere di morte che fino allora avevano segnato il grosso della produzione dei western così come degli horror all’italiana. Dopotutto è negli anni ’60 che si toccano le vette più alte del gotico italiano, mentre il decennio successivo mutuerà il gotico con il thriller americano creando quell’horror particolare che è tipico italiano. La commistione dei generi è usata anche dal western nostrano, e proprio la declinazione cimiteriale e macabra del gotico è quella che predominerà in alternativa alla violenza cruda ed iperreale, a tratti anticipatrice dello splatter e del gore che esploderà nel western molto più avanti di altri film di pistoleri e sadici banditi. Vari sa quindi come dosare gli elementi, anche se va notata una certa impersonalità del lavoro, tutto lasciato nelle mani delle caratterizzazioni degli attori. Ed il risultato è davvero buono.
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