Regia di Alejandro Amenábar vedi scheda film
L’immaginario concettuale di questo ormai datato lavoro di Amenàbar affonda le sue radici nelle gloriose stagioni della “new wave” horror/thriller degli anni 60 e 70 (nelle quali anche parecchi registi italiani fecero la parte del leone), riattualizzato ai comunque edulcorati gusti “mainstream” dello spettatore medio odierno. La confezione è di lusso, quindi, ma la sua stessa natura derivativa produce solamente effetti telefonati: un bigino ben distribuito e ben rappresentato ma principalmente svuotato di qualunque essenza emozionale. Effetto derivativo che il regista asseconda in toto, costruendo atmosfere visivamente suggestive ma apertamente utilitaristiche. Un lavoro non originale e vedibile, comunque, che avrebbe tuttavia richiesto (causa la natura abusata delle situazioni) un robusto sostegno drammatico al racconto e interpreti all’altezza. Aspetto quest’ultimo anch’esso deficitario, visto che le fragili spalle attoriali di una diafana Nicole Kidman non hanno le caratteristiche per “sorreggere”, da sole, un intero film. Non aiutata, come in altri casi recenti più felici (penso, per esempio all’ottimo lavoro svolto da John Hurt e Gena Rowlands in “Skeleton Key” di Ian Softley, non eccezionale thriller del 2005 salvato dalla loro classe), neanche da caratteristi ispirati; infatti, solo la comunque svagata interpretazione di Fionnula Flanagan rimane sufficientemente impressa nella mente dello spettatore, persa tra le smorfie finto “gotiche” della Kidman e dei due coprotagonisti all’epoca bambini (Alakina Mann e James Bentley). Lo stravolgimento finale appare poi abbondantemente annunciato dalla pletora di presagi e “screaming moment” disseminati per tutta la durata del film, espedienti che non riescono sicuramente a confondere lo spettatore minimamente avvezzo e non scalfiscono la mia idiosincrasia per tali effetti che ritengo, il più delle volte, inutili (una delle poche eccezioni ? “L’esercito delle 12 scimmie” di Gillian).
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