Regia di Mateusz Kudla, Anna Kokoszka-Romer vedi scheda film
Un viaggio universale sul valore della memoria, da tutelare e condividere sempre…
«I ricordi sono terribili, lo devo ammettere,
ma non li voglio cancellare;
voglio che rimangano nella mia memoria
così come sono. Non li voglio deformare».
Alcuni giorni fa, il 27 Gennaio 2023, c’è stata l’annuale ricorrenza della Giornata della Memoria, la giornata che l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha scelto per commemorare tutte le vittime dell'Olocausto o della Shoah, nel termine adoperato dal popolo ebraico. E come ogni anno, alla pari di tanti altri campi e settori del vivere sociale, anche il cinema e la tv hanno dedicato spazi culturali, documentari e film inerenti a questo argomento al fine di meglio sensibilizzare l’animo umano.
Tra le nuove uscite al cinema, due film mi sono parsi molto interessanti e di grande valore umanista, oltre che di grande qualità realizzativa e artistica: il documentario sulla Shoah, “Tre minuti”, diretto da Bianca Stigter (che, attraverso un breve filmato amatoriale in 16 mm trovato per caso in un armadio, racconta il tragico destino della cittadina polacca di Nasielsk: 7.000 abitanti di cui 3.000 ebrei. Solo un centinaio sopravvisse all'Olocausto), e “Hometown”: La strada dei ricordi” diretto da Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer, e prodotto da Èliseo entertainment di Luca Barbareschi con KRK Film, in collaborazione con Vision Distribution e Sky.
La seconda di queste citate pellicole, come meglio esplica il suo titolo originale: “Polanski, Horowitz. The Wizards from the Ghetto”, è un vero e proprio viaggio che lo spettatore compie insieme al famoso regista Roman Polanski e al fotografo (o photocomposer) Ryszard Horowitz, una coppia di amici da una vita (hanno frequentato lo stesso liceo artistico a Cracovia), sei anni di differenza l’uno con l’altro, che si ritrovano di nuovo insieme nella loro città natale, dopo oltre 60 anni.
Roman Polanski è nato a Parigi nel 1933, Ryszard Horowitz a Cracovia nel 1939, ma entrambe le loro famiglie sono state testimoni della costruzione del ghetto e delle deportazioni nei campi di concentramento dalla città polacca.
A differenza dei suoi genitori, Roman Polanski riuscì a scampare all’esperienza della deportazione ed è stato nascosto più volte fino ad essere poi affidato a una povera famiglia di contadini cattolici.
Horowitz invece è stato deportato piccolissimo ad Auschwitz, venendone poi salvato (uno dei più giovani) da Oskar Schindler – motivo per cui lo si può intravedere in una veloce apparizione in “Schindler’s List” di Steven Spielberg, un altro grande regista e anche lui di origini ebraiche.
I registi Kudla e Kokoszka-Romer, che firmano anche sceneggiatura e montaggio, seguono questi due amici in una serie di passeggiate e soste lungo i posti della loro città natale, registrando in presa diretta le conversazioni, ma anche la voce over di Horowitz che riflette sull’amico. Da quando Polanski è emigrato da Cracovia per diventare regista cinematografico diviso tra gli States e l’Europa, e Horowitz è fuggito a New York per intraprendere la sua carriera fotografica, i due non si sono più rivisti in patria; ma per questo bellissimo documentario sono tornati nel luogo che li ha cresciuti e li ha resi quelli che sono oggi. Seppur diversi, i due hanno avuto un percorso molto simile, entrambi, infatti, saltavano la scuola per andare al cinema o a sviluppare le prime fotografie, coltivando così la loro passione. I tormentati passi sul suolo polacco, volente o nolente matrice del proprio background artistico ed emotivo, sono le memorie che li ha portati a essere oggi nomi affermati del cinema e della fotografia.
L’odio razziale, la segregazione, la persecuzione, la lacerazione degli affetti, tutto ciò che è inenarrabile e indescrivibile, fuoriesce dai dialoghi di questi due amici in forma di memoria e ricordi della drammatica e triste giovinezza (e rievocati da quei posti natii che in passato furono teatro dell’irrappresentabile: la piazza principale della città, una sala cinematografica di quartiere, gli appartamenti in cui si abitava, il cimitero dove sono sepolti i propri cari, la scuola ebraica, la sinagoga, il Muro della Memoria, il ghetto), ma anche e soprattutto dall’amara consapevolezza di chi è stato oggetto e soggetto di questa immane tragedia nonché i sopravvissuti testimoni più diretti della crudeltà umana…
Come fare a esorcizzare incubi e fantasmi del passato che si sa, per chi ha vissuto sulla propria pelle l’orrore e la tragedia più angosciante, sarà impossibile e proprio per questo il passato resterà per sempre un ospite non gradito che ti accompagnerà per il resto dell’esistenza? Come fare ad affrontare e superare traumi e tormenti; metabolizzare ricordi laceranti e inquietudini esistenziali; elaborare dolori, lutti e mancanze?
Horowitz e Polanski spesso si interrogano sul come fare/come hanno fatto a convivere con tutta questa sofferenza mnemonica, spesso anche contro la propria volontà; su come si possa conservar vividi ricordi che (non) si vorrebbero tenere, come quelli dei rastrellamenti e delle deportazioni della loro comunità ebraica polacca durante la Seconda Guerra Mondiale. Su come si è riusciti ad andare avanti. Forse è stata anche la loro arte, la loro passione ad averli sostenuti/aiutati. Ma certamente anche altro che mai sapremo.
Il duo Horowitz-Polanski sembra quasi che voglia camminare lungo una strada che è sempre in bilico dal farsi risucchiare dagli echi del passato, e allo stesso tempo bisognosa di aggrapparsi alla voglia di andare oltre il terribile incubo che essi richiamano; assaporando così la sensazione, bella seppur illusoria, di vedersi come delle persone comuni. Una delle cose che più coinvolge di quest’opera, e ce la rende ancor più affascinante e piacevole, è che Polanski e Horowitz sorridono e ridono tantissimo, opponendo sano distacco e senso del paradosso umoristico, ad un atteggiamento vittimista. Emozioni profonde e riflessioni serie non si staccano mai da punte di divertita complicità, di fraterna amicizia, di entusiastica voglia di vivere. L’energia, la sincerità, la chimica che sprigiona il duo è eccezionale e contagiosa allo stesso tempo, e porta il documentario, ma anche le figure dei suoi protagonisti, su un altro livello; un livello che ci fa seguire con maggiore interesse qualsiasi cosa costoro si e ci dicono, e soprattutto che ci fa meglio entrare in empatia con le loro complesse personalità.
Ma affrontare il tutto con un sano distacco, è una sfida troppo ardua.
Sentire tuttora interiormente ancora forte il fatto di essere stati vittime dell’odio e della malvagità umana che ti segna la vita per sempre, è come una ferita che fatica a rimarginarsi.
Che non ti fa passare con indifferenza davanti a ciò che rivedi e che ancora conserva echi di voci e volti perduti nel tempo. Quei volti e quelle voci di chi hai voluto bene e che ti sono stato strappati via.
E che purtroppo, con uno sguardo disincantato sul genere umano, fa parlare così Horowitz: «Le persone non imparano dalla Storia. Non traggono nessuna lezione. La mancanza di rispetto per le religioni diverse, per le origini diverse o per il colore della pelle è una cosa molto crudele, che dimostra che la storia si ripete. Tutto si ripete, dopo qualche decennio, la guerra o qualche disordine. Le persone sono sempre crudeli».
Se Horowitz [1] ha forse trovato nelle sue fotografie e nella sua professione una valvola di sfogo al malessere vissuto in gioventù, Polanski allo stesso modo ha saputo incanalare nel cinema i propri incubi e tormenti interiori per esorcizzarli un po’ di più, tenendoli a bada, lontani dal fargli ulteriormente male.
Attraverso l’analisi della sua lunga e pregiata filmografia possiamo notare tematiche oscure e claustrofobiche e un profondo pessimismo nei confronti delle relazioni umane, e soprattutto si può evidenziare come prevalga in ogni pellicola un senso di straniamento, di angoscia e inquietudine, di condanna, di persecuzione e paranoia. A loro aggiunta non mancano ricorrenti e opprimenti situazioni di follia, delirio, atmosfera surreale e confusa, nevrosi, senso di colpa, alienazione, tensione o impotenza.
Non rimanda tutto ciò al vissuto tragico e claustrofobico del regista, a tutta la sua condizione traumatica sin dalla sua drammatica infanzia?
L’opprimente orrore quotidiano, e la perturbante e Kafkiana condizione esistenziale di vedersi una vittima condannata in un modo o in un altro a perdersi, è il fil rouge che lega alcune delle pellicole maggiori di Polanski (“Il coltello nell'acqua”, “Répulsion”, “Cul-de-sac”, “Rosemary’s Baby”, “Chinatown”, “L'inquilino del terzo piano”, “Frantic”, “Oliver Twist”, “L’uomo nell’ombra”, “Quello che non so di lei”, “L’Ufficiale e la spia”, a solo titolo esemplificativo), un riflesso delle origini ebraiche di Polanski e delle esperienze antisemite che dovette subire in gioventù, un modo per mettere in immagini e metabolizzare così ricordi laceranti e inquietudini esistenziali.
Ma c’è stata anche un’altra arma, o meglio uno scudo, che lo stesso regista ha usato per difendersi a livello psicologico, ed è quello dell’ironia, del senso del grottesco con cui ha voluto dipingere certe situazioni storiche e sociali, e più in generale la natura umana e la realtà nella quale essa è calata. Un senso umoristico e ironico che ha fatto proprio al fine di ridere e denigrare l’assurdità della realtà, i capricci di una sorte beffarda, i violenti colpi bassi sferrati dalla stessa natura umana, crudele e malvagia, stupida e ottusa il più delle volte. Una deformazione del reale sotto la lente del grottesco, al solo fine di protezione e autotutela emozionale; un altro modo per riuscire a meglio metabolizzare quei ricordi strazianti e quelle inquietudini persistenti, oltre che (al pari dell’ironia usata anche nei dialoghi di questo documentario) un atteggiamento mentale finalizzato a “distaccarsi” dalla realtà e prendere rivalsa su essa ridicolizzandola, nel tentativo di affrontare e superare traumi e tormenti. A tal proposito esprimono bene questo pensiero film come “Per favore, non mordermi sul collo!”, “Che?”, “Pirati”, “Luna di fiele”, “La nona porta” ma anche “Carnage” e “Venere in pelliccia”.
Polanski non ha mai parlato direttamente ed esplicitamente della sua Polonia sconvolta dagli orrori del Nazismo, lo ha fatto soltanto nel suo bellissimo film “Il Pianista.” In una forma rappresentativa più indiretta ed evocativa però, ha trattato il rapporto che si può instaurare tra vittima e carnefice nel microcosmo come quello del campo di concentramento, e quindi dell’inevitabile ambigua interscambiabilità di questi ruoli di “chi domina” e “chi viene dominato” nel relativo legame derivante, in un’altra sua notevole pellicola, “La morte e la fanciulla” [2].
Concludendo questa lunga digressione, e tornando al documentario, va riconosciuto ai suoi due registi Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer il merito di aver diretto due geni, ognuno nel suo settore, rendendosi invisibili dietro la macchina da presa, così da far trasparire spontaneamente le emozioni più intime dei due artisti; regalarci una preziosa testimonianza di un pezzo di Storia da ricordare e soprattutto il raccontarsi di due amici con commozione, senso dello humor e leggerezza nell’affrontare la durezza della realtà. Una fortissima voglia di vivere che ha permesso di farli sopravvivere in ogni circostanza avversa della loro lunga esistenza.
Nel condividere con generosità i loro sentimenti nascosti e le loro osservazioni riflessive, i due artisti lasciano così nel cuore dello spettatore la speranza di trovare anche nell’orrore più cupo della realtà e dell’anima umana, un qualche spiraglio di luce…
L'abile montaggio delle scene in presa diretta e del materiale d'archivio, fanno si che “Hometown - La strada dei ricordi” diventi molto più di un mero documentario. La pellicola è soprattutto una grande lezione di cinema e un monito alle coscienze dell’uomo poco incline a restare sveglie. In definitiva, un viaggio universale sul valore della memoria, da tutelare e condividere sempre… Sperando che prima o poi, si possa imparare qualcosa da essa. E la speranza, si sa, è l’ultima a morire…
NOTE, CURIOSITA’, ULTERIORI APPROFONDIMENTI:
[1] : «Ryszard Horowitz è riconosciuto come uno dei pionieri della fotografia con effetti speciali che precede il digitale. Egli ha cominciato a scattare foto all’età di quattordici anni. Emigrato negli Stati Uniti nel 1959, si iscrive al Pratt Institute di New York nel reparto di progettazione grafica commerciale e pubblicitaria. Qui ha incontrato i suoi mentori, Richard Avedon e Alexey Brodovitch. Horowitz ha partecipato a seminari settimanali condotti da Brodovitch e ha lavorato come assistente per Avedon nel 1963, e anche a una sua famosa sessione di ritratto con Salvador Dalì. Dopo la laurea da Pratt nel 1962, Horowitz ha iniziato a lavorare nel cinema e nella televisione. Nel 1967 apre il proprio studio fotografico a New York City. Ha sviluppato una carriera di successo sia in belle arti, sia in fotografia commerciale; ma è più noto per la creazione di composizioni fotografiche complesse, che sono stati confrontati con le opere surrealiste di Magritte e Dalì, a inizi carriera» (Fonte: Wikipedia).
[2] : A proposito del film “La morte e la fanciulla” (che non si riferisce assolutamente ai campi di prigionia e di sterminio degli ebrei per opera dei nazisti, ma a un altro tipo di dittatura) se si vuole rimanere in tema di rapporto vittima-carnefice e soprattutto sull’argomento della Shoah, questa pellicola rimanda benissimo ad un altro film di cui suggerisco la visione: si tratta de “La passeggera” (1964) diretto da Andrzej Munk e Witold Lesiewicz. Un capolavoro che, seppur incompiuto, approfondisce in modo sublime le suddette tematiche. Questa la sinossi: «Durante una crociera, una donna tedesca, che fu guardiana ad Auschwitz crede di riconoscere tra i passeggeri della stessa nave una delle sue prigioniere ebree di allora».
Inoltre, se si vuole approfondire anche sul suo bravo regista, il polacco Andrzej Munk, prematuramente scomparso in un incidente automobilistico a soli 40 anni, e visionare anche la sua interessante filmografia, potete consultare questo Link: https://www.imdb.com/name/nm0612914/ .
Rimanendo in tema con la Giornata della Memoria e la Shoah, per chi volesse, lascio qui il Link dove è possibile visionare un video da me realizzato per la poesia di mio fratello su questo argomento. La poesia ha ottenuto la Menzione d'Onore al Concorso Nazionale di Poesia per la Shoah 2021/'22. Il video invece è stato selezionato come Finalista al Siloe Film Festival 2023.
Grazie : "Tutti meritano la vita" di Bruno Montefalcone
VOTO: 8
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