Regia di Peter Sohn vedi scheda film
Più di vent’anni fa Pixar era sinonimo di cinema d’animazione all’avanguardia, innovativa, alternativa a una Disney un po' in difficoltà. Dieci anni dopo l’azienda fondata da Edwin Catmull & Alvy Ray Smith sfornava un capolavoro dopo l’altro pur iniziando a perdere la propria carica sovversiva anche a causa di una concorrenza sempre più agguerrita, specie dalle parti della Dreamworks, la sua rivale storica, ma anche di Warner e Sony che iniziavano così a creare, anche sbagliando e commettendo errori, una nuova generazione di autori che avrebbero di lì a qualche anno cambiato le gerarchie del settore.
Oggi Pixar, checché se ne dica altro, rimane ancora sinonimo di altissima qualità, tuttavia, durante il periodo trascorso con John Lasseter sotto l’egida della Disney, che ha finito per mescolare un po' le carte proprio in favore dell’azienda di Burbank, ne ha smorzato in parte l’entusiasmo degli esordi finendo per cedere lo scettro dell’innovazione a dei nuovi contendenti.
La sua ultima pellicola distribuita, Elemental, rappresenta esattamente tutto questo.
L’opera diretta da Peter Soho (il corto Parzialmente nuvoloso, Il viaggio di Arlo) è infatti un film estremamente solido, gradevole, ben scritto e con ottimi personaggi, tecnicamente eccellente ed estremamente rappresentativo degli ideali democratici americani ma non si può certo dire che sia anche innovativo o quantomeno coraggioso, riprendendo situazioni già esplorate in Zootropolis con la città multietnica rappresentativa della multiculturalità della società americana (e occidentale) o in Inside Out o Soul, tornando ancora ad astrazioni personificate di elementi diversi, senza però uguagliarle sia in efficacia narrativa che in progressiva evoluzione tematica, il tutto sempre con uno stile molto alla “Pete Doctor”.
Artisticamente il design funziona, sia riguardo alla città di Element City, soprattutto in prospettiva degli elementi cromatici, che nei confronti dei vari personaggi, sia per la resa espressiva che per gli approfondimento psicologico, e poi non era affatto scontata centrare graficamente la natura dei diversi elementi che compongono la città, così come risultano centrate le musiche del veterano Thomas Newman ma tutto risulta eccessivamente derivativo, a partire proprio dai protagonisti che evocano, anche graficamente, gli astratti personificati di Inside Out.
Il tema è quello degli opposti (fisicamente, culturalmente, geograficamente. Emotivamente?) che si attraggono, apparentemente incompatibili ma che finiscono per completarsi a vicenda attraverso il classico pretesto narrativo, quasi sempre piuttosto pretestuoso ma che, pur non rappresentandola, detta la struttura stessa di un racconto che, scritta da John Hoberg, Kat Likkel & Brenda Hsueh, preferisce però l’esplorazione di tematiche più collaterali, anche (forse) più prosaiche, come il rapporto tra genitori e figli, il confronto tra diverse culture e quindi il flusso migratorio e il razzismo, il classismo e i fenomeni di gentrificazione.
La caratterizzazione della coppia protagonista è però quella a cui si è dedicata la maggiore attenzione nonché quella più riuscita, capace di generare i momenti e gli sviluppi più toccanti, forse anche come conseguenza delle esperienze e del vissuto stesso del regista Peter Soho, nato a New York da genitori emigrati dalla Corea all’inizio degli anni Settanta, che ha sperimentato in prima persona gli stessi conflitti culturali raccontati nel film, anche con sua moglie Anne Chambers, sceneggiatrice e animatrice di origine italiana, la cui relazione inizialmente ha dovuto tenere nascosta ai parenti come la protagonista del film proprio perché ritenuta inopportuna.
La scelta invece di non avere un antagonista da contrapporre ai protagonisti per lasciare il loro rapporto al centro della storia, per quanto sensata, ha come conseguenza di sviluppare l’intero intreccio drammatico alle loro spalle, anche attraverso forzature non sempre coerentissime o particolarmente coinvolgenti, mentre l’umorismo, particolarmente diretto e immediato, pensato per un pubblico di giovanissimi risulta invece meno indicato per uno un po' più maturo.
Nonostante questi problemi, e preso atto che non passerà certo alla storia come uno dei maggiori capolavori della Pixar, Elemental ha comunque una buona storia, un ottimo ritmo narrativo, visivamente ha un suo fascino particolare (per quanto un po' derivativo) e tecnicamente è eccellente ma, soprattutto, ha una coppia di protagonisti imperfetti, problematici ma umanissimi e proprio per questo adorabili.
Non è poco.
VOTO: 6,5
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