Regia di Hassan Yektapanah vedi scheda film
Titolo e film sono entrambi per il giovane protagonista, un afghano che finisce a lavorare nella sperduta campagna iraniana dopo una cocente delusione amorosa. Djomeh lavora sodo, munge vacche e trasporta latte, accompagnando il suo padrone, ogni mattina, nel paese vicino, dove i bambini tirano pietre ai “forestieri” e gli abitanti cercano di vivere, con la massima dignità possibile, l’estrema povertà. La ragion d’essere dell’opera prima di Hassan Yektapanah (già assistente di Kiarostami) è nel riuscire a coniugare, con una semplicità assai rielaborata, forma e contenuto. Anzi: il “messaggio” si trasfigura nella sobrietà dello stile, verrebbe di dire: nella sua purezza. Una fitta tela verbale - quella che si instaura tra “l’extracomunitario” e l’indigeno - si srotola così davanti al paesaggio senza figure di un paese arso dal sole, dalle severe tradizioni religiose, dalla feroce idiozia che fa sentire gli uomini non liberi. Di vivere, e d’amare.
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