Regia di Arto Paragamian vedi scheda film
Benjamin, paleontologo di successo, americano di origini armene, ha appena divorziato dalla moglie e scopre di avere una malattia rarissima, la “sindrome di Talbot” (da cui il titolo) per cui la massa del suo cervello si espande indefinitamente, fino a portarlo alla perdita della memoria e alla morte certa. Non esistono cure, né la malattia porta dolori, per cui l’unica cosa da fare è rassegnarsi e vivere l’ultimo mese di vita nel modo migliore possibile. Problema non da poco, perché invece la vita di Benjamin comincia a popolarsi dei fantasmi del passato, che si annunciano con un ronzio da vecchio proiettore e animano i fondi delle tazze o addirittura le pareti di interi edifici. Il regista Arto Paragamian, quasi esordiente, è un armeno canadese come Egoyan e sa quello di cui parla. Culturalmente il film è sulla scia della grande letteratura ebrea-americana, da Philip Roth al canadese Mordecai Richler (o, al cinema, certi esiti onirici di Woody Allen e di Paul Mazursky). La sceneggiatura ha qualche caduta di ritmo e dialoghi intelligenti, la regia è senza voli. Il film si fa vedere soprattutto grazie a uno strepitoso Turturro, sul quale tutto è cucito, e che riesce ad essere atono, dolente, buffo, e infine quieto. Sarebbe stato carino vederlo in originale, anche perché la versione italiana sembra avere alcune sviste di traduzione.
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