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Amico, stammi lontano almeno un palmo

Regia di Michele Lupo vedi scheda film

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La recensione su Amico, stammi lontano almeno un palmo

di scapigliato
10 stelle

Siamo dalle parti di Trinità, e la coppia comica Gemma-Montefiori - ché Giovanni Montefiori è il vero nome dell’attore e qui anche sceneggiatore George Eastman - funziona benissimo tanto quanto l’originale Hill-Spenser. La differenza è che il film di Michele Lupo nasce con un anima più drammatica che avrebbe toccato pure la tragedia, invece tutti ormai conosco l’apporto brillante del film di Enzo Barboni. Questo sostrato drammatico riemerge lungo l’intero arco del film e soppianta il taglio scanzonato grazie alla bravura del regista. A conoscere però le vicende produttive veniamo a sapere che non solo la sceneggiatura di Montefiori era più drammatica di quella revisionata da Sergio Donati e che prevedeva uno sviluppo amaro alla Butch Cassidy fino alla morte dei due protagonisti, ma che sul set lo stesso Montefiori non si beccava bene con il regista, colpevole di non capire la novità di una sceneggiatura “all’americana” come l’attore-sceneggiatore voleva. Alla fine ciò che conta è il film che abbiamo tra le mani e non quello che avremmo avuto con i se e con i ma, e il film che abbiamo tra le mani è davvero uno dei titoli più belli dell’intero corpus spaghetti.

Già la storia in sé, paradossalmente, è una novità. Abituati a storie di vendette, di fughe o di inseguimenti, bounty-killers o addirittura emissari della morte, non siamo quasi mai stati abituati ad un vero rapporto di amicizia esplicitato nei gesti e nelle intenzioni come nei discorsi tanto quanto avviene in Amico, Stammi Lontano Almeno un Palmo. La coppia Hill-Spencer in Trinità è una coppia “sterile”, se mi si lascia passare il termine, mentre Gemma-Montefiori sembrano due ragazzini, due adolescenti che si amano e si odiano, che litigano e si cercano. Il taglio omoerotico che viene dato alla coppia, forse involontariamente ma pur sempre evidente e innegabile, è segnale di un’intenzionalità autoriale che davvero vuole travalicare il cliché all’italiana e, prendendo l’esempio del film con la coppia Newman-Redford, vuole assumere i toni dell’epica adolescente trasfigurando le pulsioni segrete e innocenti dell’età puberale in percorso mitico ed ultimo dell’esistenza duale e soprattutto virile. Quasi a dire che non può esistere vera coppia di amici che non tenga in conto dell’attrazione atavica dell’uomo per il solo uomo. A conferma di questo, un po’ ingenuamente, sono li stessi attori: Gemma e Montefiori ad alto tasso di testosterone e ambiguità. Ingenuamente perchè dopotutto Montefiori è lo sceneggiatore e Gemma l’amico a cui per primo ha rivolto l’invito. Sembra quindi più un caso che una forzatura produttiva atta a vendere il film con due attori che sono anche potenziali sex-symbol. Ma Freud ci insegna quanta verità sia nascosta nei nostri gesti involontari e credo che un autore di un certo spessore, come appunto Montefiori, avesse ben presente il potenziale omoerotico della coppia che andava formando.

Un’amicizia quindi totalmente diversa da quelle sterili e puramente comiche, quasi infantili, alla Hill-Spencer che andavano più che altro a rovistare nella primitività del gesto comico portandolo a livelli tuttora ineguagliati; o da quelle ciniche, la maggior parte, che popolano il nostro western dopo l’archetipico rapporto Biondo-Tuco, o se preferite Eastwood-Wallach in Il Buono, il Brutto, il Cattivo. Le bellissime immagini dei titoli di testa per esempio, già annunciano la morbosità, benché nascosta dalla rabbia del personaggio, che unisce i due protagonisti e suggerisce per il personaggio di Montefiori il ruolo passivo della coppia. Il personaggio di Giuliano Gemma dal canto suo è in linea con la spavalderia di Terence Hill: si ficca nei guai, fa lo spaccone, ammalia le belle donne, ama il rischio e così via. Questo lo ridefinisce come la controparte attiva della coppia, confermata molto più avanti nel film quando Gemma convince Montefiori che è lui il suo capo, e Montefiori - bravissimo tra l’altro! - restando un rude pistolero è capace di evidenziare il piacere della sottomissione e la felicità di un rapporto ritrovato in cui le parti hanno finalmente trovato un loro ruolo preciso. Molte poi sono le sequenze in cui lo spettatore viene stuzzicato omoeroticamente, come le scazzottate in pieno deserto oppure la scena del bagno nella tinozza, senza contare tutti i tira e molla della coppia manco fossero due innamorati. Altro segnale importante: davanti all’altare Gemma scappa e non si sposa. Certo non è determinante, molte possono essere le implicazioni, come quelle alla Harry Collings, ma l’inettitudine alla vita di coppia eterosessuale è lampante, e vi preferisce l’amicizia virile qualsiasi rischio comporti.

L’eredità americana di Butch Cassidy quindi è prioritaria sul vissuto spagowestern, almeno nella sceneggiatura di Montefiori, mentre una volta rivista da Donati e poi diretta da Lupo è il cliché italiano a predominare sull’idea originale dello sceneggiatore. Ma non è un dramma perchè Lupo è uno tra i registi minori del western all’italiana che più hanno saputo giocare con il genere. Questo permette al film, pur non essendo fedele alla sceneggiatura originale, di rendere con efficacia sia il rapporto tra i due protagonisti, sia tutto il materiale iconografico e tipologico che è stato speso per la confezione di questa pellicola che sembra una summa dei primi dieci anni di Spaghetti-Western. Innanzitutto la regia di Lupo, va detto, è molto americana. Quindi va da sé che o ha seguito alla lettera le indicazioni di Montefiori, cosa che l’attore nega, oppure Lupo è stato bravo di suo a visualizzare inquadrature con prospettive e tagli evocativi in linea con il neo-western americano di Peckinpah, Hellman e pochi altri. Ma su stessa ammissione di Montefiori, Lupo era parecchio chiuso e non capiva le sue indicazioni “americane”. Fatto sta che il film che vediamo è visivamente molto bello, e credo questo sia imputabile allo stesso Michele Lupo anche in considerazione dei suoi titoli precedenti che sono tra i migliori del genere: California e prima ancora Arizona Colt entrambi con Giuliano Gemma. Detto questo, spicca il grande apporto di ambienti e attori. Le locations storiche dello spagowestern vengono qui riprese con un’idea nuova e vincente. Il Fuerte Condor, costruito per l’omonimo film con Lee Van Cleef, fa da scenario immobile alle prime scene, nulla più, ma incombe sui protagonisti quasi fatalmente e la sua importanza scenografica viene quindi rispettata. Come lui, i vari decorados sono riutilizzati in accezione decadente apportando al film, che per lo più gioca su ritmi da commedia, l’iconografia giusta per conferirgli il tono tragico o almeno drammatico che Montefiori ricercava nella sua prima stesura della sceneggiatura. Una ballata mesta e grave quindi, come il côté scarno, disadorno, spettrale e in un certo senso pure lugubre e cimiteriale che si è dato ai decorados. Vengono utilizzati infatti sia l’attuale Texas-Hollywood, che però nel film è una radiosa cittadina di frontiera, ma soprattutto il poblado Mimbrero usato in Blindman e che si trova in località La Sartenilla a Tabernas, le rovine del cortijo del Buho nell’omonima valle percorsa dalla Rambla Benavides anch’essa usata di peso nel film, il poblado messicano costruito a Las Salinas e di cui oggi non esiste più nulla ne non qualche asse persa in giro, e la gloriosa El Paso di Per Qualche Dollaro in Più ovvero l’attuale Mini-Hollywood che prima del restauro emanava davvero l’animo fantastico delle vere città fantasma. In questi set si fa un grande uso di immagini evocative e si dà così alla vicenda quel taglio drammatico che l’autore originale cercava. Ma a fare la gioia degli aficionados è l’uso prepotente che si fa delle bellissime ed oggi completamente sparite dune del Cabo de Gata. Pochi film hanno girato scene lunghe e di spessore in questo Eden di sabbia dorata, i più significativi che mi vegono in mente sono Il Buono, il Brutto, il Cattivo, Faccia a Faccia, Sentenza di Morte, Spara, Gringo, Spara e Blindman. È credo l’unico film, questo di Michele Lupo, ad inquadrare questo spazio dunoso quasi totalmente e perfino dall’alto. Queste inquadrature però non ci aiutano oggi a individuare il luogo esatto delle riprese. Infatti le località Las Amoladeras e Mazarrulleque sono oggi irriconoscibili. Prima che l’area diventasse riserva naturale, le cinque grosse dune di sabbia sono state saccheggiate dai proprietari dei tristemente famosi invernaderos, serre di plastica quasi sempre abusive che in nome del consumismo selvaggio deturpano l’ambiente naturale senza una vera regolamentazione. Successivamente, quando l’area diventa protetta, ciò che rimane delle dune viene lasciato totalmente a madre natura e si popola di vegetazione spontanea che ne cambia definitivamente l’aspetto. Restano pertanto i nostri western a ricordarci quanto fosse magico quel posto.

A contribuire ulteriormente al fascino del film concorre una ricca galleria di caratteristi del genere che tra villains e compadres popolano la pellicona con aria fumettistica aiutandola a ricreare un universo tipologico nuovo e che nel futuro del genere diventerà predominante - basti pensare alle caratterizzazioni dei due western anni ’80 di Bruno Mattei. Su tutti i caratteristi, come al solito, sono i cattivi, i villains, los malos a farla da padroni. Dopo un temibile sceriffo di nerovestito interpretato da Aldo Sambrell con tanto di avanbraccio di legno che lo trasforma in un vero e proprio supercattivo da fumetto, arrivano i tre spietati banditi interpretati da Luciano Catenacci, Nello Pazzafini e Remo Capitani. I tre sono tre pregevoli caratterizzazioni una più bella dell’altra. Molto spazio viene lasciato a Catenacci che assume così il titolo di primo cattivo del film, e il suo look non tradisce l’ambiguità in bassocontinuo che serpeggia nella pellicola. Quasi androgino, Catenacci sfoggia una lucida testa rapata a zero - e non è una novità -, ma che qui fa il paio con un petto nudo ultradepilato quasi nascosto da una giacchina circense sempre aperta e un collo omaggiato da un collare d’oro che serve a nascondere la cicatrice di un tentativo di impiccagione. Questa sua mise felina che ricorda un gatto egiziano, cozza con quelle più rozze e più attinenti all’ambiente di Pazzafini e Capitani. Il primo sfoggia un abito da sicario che è un mix tra lo stile delle divise nordiste e l’abito di un pastore protestante. Il secondo, che nel film è Charro un messicanaccio, indossa abiti tipici dei personaggi non anglosassoni, chiaramente rivisitato dalle bizzarrie tipiche del nostro cinema. I tre sono davvero i cattivi centrali della pellicola e arrivando a metà film ne distinguono bene i due tempi: il primo, più incline alla commedia per i toni e le situazioni, e il secondo che senza tradire lo spirito gogliardico del film vira verso un’atmosfera più ferina e fatale.

Completano il film uno stuolo di facce memorabili che si prestano addirittura per piccolissimi ruoli che prevedono a volte neanche una battuta come José Manuel Martín in apertura di film, e poi Jorge Rigaud, Giovanni Cianfriglia, Francisco Paco Sanz, Tom Felleghi e Osiride Peverello. Oltre a Vittorio Congia nel ruolo di Tre-per-Cento, hanno il loro spazio attori come Luis Induni, Marisa Mell, Giacomo Rossi Stuart, Franco Fantasia, Roberto Camardiel e Cris Huerta. Non serve aggiungere altro per rivalutarlo come andrebbe rivalutato, e inserirlo là tra quei titoli che dallo spagowestern cercano di avvicinarsi alla nuova lezione tragico-elegiaca di Peckinpah

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