Regia di Byung-gil Jung vedi scheda film
Il regista di The Villainess ci riprova e... fa il tonfo. Scivolando su un film che s’avvicina alla definizione di inguardabile. Peggio di un videogame sparatutto in prima persona.
Affossato in misura definitiva sin dall’incipit dall’assurda decisione registica di voler dare l’impressione che il film sia stato girato in un unico lunghissimo piano-sequenza: ma non ci crede nessuno, i tagli si vedono eccome e le riprese, con questa premessa, risultano tutt’altro che fluide e anzi irrimediabilmente “scattose”, prive della pur minima qualità cinematografica e rassomiglianti piuttosto, di nuovo, ad un walkthrough di un videogioco.
Irritanti al punto di far venire i giramenti di testa, talmente poco credibili, confusionarie e frastornanti – tra zoom, brusche accelerazioni, crane, droni, saliscendi infiniti – da far meditare di interrompere da subito la visione. E, come ciliegina sulla torta, aggiungiamoci quegli sprazzi in CGI di quarta lega che paiono persino di più bassa qualità di quelli di un film a zero budget: peccato che in questo caso non si possa avanzare neanche quella scusa, perché se questo film è costato poco allora Tom Cruise è un attore migliore di Denzel Washington.
Inoltre, il film e il regista si prendono un po’ troppo sul serio, sicché non è possibile giocarsi manco l’eventuale carta “cretinatina alla Crank”. Insomma, Carter è un pastrocchio, un blob informe e senz’anima, uno dei peggiori film d’azione usciti su Netflix (e, si badi bene, la concorrenza è accanita: è sufficiente citare perle quali The Old Guard, 6 Underground, Tyler Rake, Army of the Dead e – ultimo in ordine di tempo – The Gray Man per rendere l’idea).
Un pasticiaccio brutto che riprende, estremizzandola, la tecnica impiegata già nel precedente film da Jung e che già allora cominciava a mostrare inesorabilmente la corda. Per quanto, infatti, un paio di sequenze dal punto di vista puramente coreografico si può dire abbiano delle grandi potenzialità – segnatamente quella del volo dall’aereo (pare fatta dal “vero”, senza green screen, à la Mission Impossible: Fallout) e quella finale dell’assalto al treno – il modo in cui sono state girate stronca sul nascere la pur minima chance di appassionarvisi, mentre la curiosità cinefila trascolora ben presto nel tedio per il loro estenuante protrarsi, ben oltre qualsivoglia soglia di tolleranza (e che il regista abbia avuto la faccia tosta di dichiarare come il suo obiettivo fosse di non annoiare neppure per un secondo gli spettatori è un’informazione che come minimo fa venire da sghignazzare e come massimo da bestemmiare).
Due ore e un quarto per un film che al più “ne valeva” una e mezza, e che per di più nell’ultimissima inquadratura – con un espediente puerile e fuori tempo massimo – spalanca ridicolmente le porte ad un eventuale sequel, il quale si spera vivamente non venga mai e poi mai realizzato.
Pietà, questo vien da pensare sempre più ultimamente. Abbiate pietà di noi, registi, sceneggiatori e produttori di cinema d’azione, un po’ di pietà per le nostre tempie e nervi ottici. Perché, davvero, detta proprio spassionatamente: ci avete moderatamente rotto i cabasisi. Bye-bye.
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