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Guardiani della Galassia Vol. 3

Regia di James Gunn vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Guardiani della Galassia Vol. 3

di lussemburgo
10 stelle

 

 

Nel suo congedo dall'Universo Marvel, per diventare il plenipotenziario del corrispettivo DC-Warner, James Gunn accompagna verso il sipario anche i protagonisti dei Guardiani della Galassia, un consesso di freak sconclusionati, come già la Suicide Squad del suo assaggio DC, a cui riesce a farci appassionare con ironia e senza distacco. Perché in quei personaggi si finisce per credere, all’arbusto monocorde, all’orsetto irascibile, al picchiatore ottuso, alle sorelle colorate e al quasi terrestre perennemente fuori posto.

Con minor verve registica rispetto a Suicide Squad, dove ogni inquadrature doveva sorprendere e divertire con una trovata eccentrica (dettagli fori contesto, scritte in sovrimpressione ecc.), l’opus finale dei Guardiani della Galassia si affida ai personaggi, dedicando a ognuno lo spazio necessario all’approfondimento fino alla descrizione delle ragioni di un reciproco affetto che, per carattere, i protagonisti non vorrebbero esibire e alla definizione di una famiglia (che potremmo, allora, definire queer), fatta di membri diversi, la cui differenza si annulla proprio in una sorta di amore.

E il film si costruisce appunto dalla contrapposizione tra l’unità che, banalmente, fa la forza del gruppo, e il conseguente rispetto, a confronto con l’egoismo egotistico dell’Alto Evoluzionario, essere quasi mistico di über-scienziato, dedito alla mera e speculativa esplorazione delle possibilità combinatorie delle varie specie. Ne derivano creature assemblate, cyborg animalier ingabbiati per sperimentazioni varie, per poi essere sacrificati per passare oltre. Un personaggio in fondo solitario perché in competizione con se stesso, piagato dal senso di superiorità e onnipotenza, quindi offeso dalla possibilità di un’intelligenza o un'intuizione simile se non addirittura migliore della sua, tanto da voler massacrare quel sorprendentemente sveglio animaletto. Un personaggio assetato di sangue e potere, ciecamente monomaniaco e non dissimile, nel tratteggio (nero di viola vestito e sopra le righe), da Kang il conquistatore di Quantumania, con una maschera per viso che sembra uscita da Brazil di Gilliam.

E l’idea di comunità solidale si esemplifica ulteriormente nel cranio volante del celestiale, abitato dalla congrega dei Guardiani e dei loro accoliti, sia nell’ampliamento ad Arca letterale, che imbarca anche tutti gli animali, in quanto esseri senzienti meritevoli di vivere, salvati dal vascello in fiamme dell’Evoluzionario.

Tra il gotico e il favolistico alla Tim Burton e uno spassoso gusto pop (la Contro-Terra come la periferia di Edward Mani di Forbici), Gunn non lascia spazio al semplice sentimentalismo, trovandone radici e ragioni, svicolando dalle strettoie della retorica sino a commuovere ad ogni pericolo o morte di un personaggio. Anche Warlok, ennesimo esperimento di super-uomo, stolto quanto potente come un Superman senza discetto (o un Eterno in cortocircuito), finisce, non solo per aggregarsi alla grande famiglia allargata, ma a ridefinirsi come neo co-protagonista.

Senza timore per il cattivo gusto anzi, spesso inseguendolo per superarlo con ironia e grottesco, Gunn, erede consapevole di Todd Browning, porta lo spettatore a immedesimarsi negli strani esseri dei Guardiani, a guardarli con divertito rispetto, comprendendone le buffe logiche e condividendone gli affetti, in una commedia slapstick che riporta a Balle Spaziali (il raffreddamento siderale di Star Lord, cita il Volume 1 ma ripete anche l’assideramento di Leia in Star Wars: Gli ultimi jedi), attraversa rom-com (Gamora reticente e Peter nostalgico) e sit-com (i protagonisti e i loro cliché comportamentali, la stessa Contro-Terra), sfugge nel fantasy, diventa space opera, recupera Dickens e i suoi orfanelli truffaldini e i mostri sociali, parodia Noè e, infine, torna con i piedi per Terra. Il tutto, senza dimenticare mai né perdere per strada i suoi personaggi o soffocarli nell’azione, le cui esagerazioni vengono addirittura sottolineate dal ralenti in stile Peckinpah, tanto che il film stesso (e la trilogia) potrebbe essere considerato una variante demenziale del Mucchio Selvaggio, una sorta di ‘mucchio selvatico’ di strani animali bizzosi.

Con onnipresente ironia e inedita delicatezza, la regia non si imbizzarrisce come in Suicide Squad per accomiatarsi dagli amici con la sincerità di un addio tinto di nostalgia, come quella chiacchierata tarantiniana (discutono di musica) in compagnia prima della battaglia nel primo sottofinale (western), o in famiglia nel secondo (domestico), e la promessa del ritorno almeno di Star Lord., anche se con una firma diversa.

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