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Causeway

Regia di Lila Neugebauer vedi scheda film

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La recensione su Causeway

di mck
8 stelle

American Genio Pontieri.

 

Esordi.

1. "CauseWay" (U.S.A., 2022) di Lila Neugebauer (1985).

2. "AfterSun" (U.K., 2022) di Charlotte Wells (1987).

 

 

Il Lake PontChartRain CauseWay [i due ponti (strade rialzate) paralleli sul lago (salato) Pontchartrain, tra il Mississippi e il golfo del Messico], coi suoi 9.500 piloni cilindrici di cemento armato disposti per 38 km abbondanti lungo i quali, attraversando diametralmente lo specchio d’acqua, getta la propria prospettiva nel sud-est della Louisiana collegando New Orleans con MandeVille, è il grande assente - più acutamente presente - che incombendo latente pervade sin dal titolo il tessuto della trama di “CauseWay” (già “Red, White and Water”), l’opera prima nel lungometraggio della drammaturga e regista teatrale (che fino ad allora aveva diretto per il cinema solo tre episodi di serie tv, uno ciascuno per “Room 104”, “Maid” e “the Sex Lives of College Girls”, ma che già portava sulle spalle una ventina di allestimenti di opere di Tom Stoppard, Tracy Letts, Kenneth Lonergan e Zoe Kazan sugli assiti dei palcoscenici di BroadWay e dintorni) Lila Neugebauer (classe 1985) scritta da Elizabeth Sanders e poi rimaneggiata dal team composto da Ottessa Moshfegh & Luke Goebel (il prossimo “Eileen” di William Oldroyd) ed interpretata (e co-prodotta) dalla (non anti-diva, ma sicuramente) non-diva Jennifer Lawrence, che qui ritorna alle origini di “Winter’s Bone” dopo un’abbuffata di “Hunger Games” ed “X-Men”, oltre a tre film per David O. Russell, il tour de force di “Red Sparrow”, e poi “Mother!” e “Don’t Look Up”, e “CauseWay” si potrebbe considerare una versione di quel film di Debra Granik (“Leave No Trace”) messa in scena però con lo sguardo geometrico-architettonico (fatto paradossale, dato che di quel ponte, fisicamente, manco l’ombra, ma “solo” una presenza devastante nel ricordo che il còr lo spezza) di un Kogonada (“Columbus”, “After Yang”).

 

 

Quel che di consueto tracola dallo script (trama, dialoghi, rapporti di causa-effetto tra i personaggi e gli avvenimenti) viene accompagnato, corroborato e rafforzato da un’idea di sguardo puramente cinematografico invidiabile: focali medie, composizione del quadro, posizione della MdP rispetto allo spazio abitato e percorso dagli attori.

 

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Accanto a Jennifer Lawrence (one-woman-movie in understatement) l’ottima prova di Brian Tyree Henry (per Donald Glover & Hiro Murai l’Alfred “Paper Boi” Miles di “Atlanta”) e le pregevoli cesellature di, più o meno in ordine di apparizione, Jayne Houdyshell (la badante di Linsay durante il primo periodo di post-riabilitazione; on stage/screen: “the Humans” di Stephen Karam), Linda Edmond (la madre di Linsay; “Song To Song”, “Lodge 49”), Stephen McKinley Henderson (il dottore che ha in cura Linsay e al quale spetta la decisione sul nulla osta per il reintegro nell’esercito di Linsay; 50 anni di teatro, e poi “Lady Bird”, “DEVS” e “Dune”) e Russell Harvard (il fratello di Linsey; “There Will Be Blood”, “Fargo 1” e “Fargo 3”).

 

 

Fotografia (forse un po’ dello sguardo della regista è suo) di Diego García (“Wild Life”, “Nuestro Tiempo”, “Too Old to Die Young”), montaggio di Robert Frazen (“Synecdoche, New York”, “I'm Thinking of Ending Things”) e Lucian Johnston (“the Ballad of Buster Scruggs”, “Hereditary”, “MidSommar”, “Macbeth”), scenografie dell’immenso Jack Fisk (T.Malick, D.Lynch, P.T.Anderson, B.De Palma, “the Revenant” e ultimo non ultimo il prossimo Scorsese di “Killers of the Flower Moon”) ed eccellenti (si pensi al ritorno a casa in autobus di Linsay) musiche di Alex Somers (l’Alex di Jónsi & Alex, là dove Jónsi è Jón Þor “Jónsi” Birgisson dei Sigur Rós), e poi brass band à la “Tremé”, più Fats Domino (“Blue Monday”), Ernie K-Doe (“Here Come the Girls”), Harry Krapsho (“Gotta Get Away”), etc…

Prodotto da IAC Films, IPR VC ed Excellent Cadaver (le riprese hanno subito due blocchi a causa prima dell’uragano Barry e poi dal SARS-CoV-2 che ha deciso di scatenare la CoViD-19) e distribuito da A24 ed Apple.

 

 
Il futuro cinematografico che nasce da “CauseWay” è tripartito: c’è quello, dotato di una propria indipendenza massiccia, che riguarda Jennifer Lawrence (“No Hard Feelings” di Gene Stupnitsky), e poi quelli di regista e trio (1+2) di sceneggiatori: degli ultimi s’è già precedentemente nominato il prossimo progetto, mentre di Lila Neugebauer, invece, si vorrebbe davvero preservarne lo sguardo, e tornare a goderne (col còr e cólla mente).

Lezioso, ma non stucchevole, “CauseWay” passa da “American Sniper” e “the Hurt Locker” all’American U.S.A.C.E. (Genio Pontieri) e all’hurt bridge/house, cercando una home, importando un po’ di democrazia mentale dentro sé stessi.


 

Estremizzando e polarizzando il sottotesto politico che grava, ctonio, su tutto il dipanarsi filmico: quanto possono far schifo gli U.S.A. (welfare, classe sociale, quartiere, famiglia) per preferir loro la war zone afghana?


* * * ¾ - 7.5   

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