Regia di Jean-Paul Salomé vedi scheda film
Un gran bel film di denuncia sociale. Tratto da una storia vera, e per nulla rara, purtroppo: la persecuzione, morale e fisica, di una lavoratrice che difende l’interesse pubblico e la giustizia, da parte di potenti esecutori del capitalismo, con i loro complici nelle istituzioni, dove questi ultimi sono passati forse proprio perché affidabilmente asserviti a tali capitalisti, che governano ufficiosamente e realmente le nostre società.
Pulito, onesto, dura due ore e non annoia mai. Tecnicamente ineccepibile, senza mai scadere nel cronachismo.
Di una profondità psicologica eccellente. Che probabilmente sarà già nel libro sulla protagonista Maureen Kearney. La quale è pennellata mirabilmente da Isabelle Huppert in alcuni aspetti decisivi: la determinazione; la solitudine.
Il suo senso di giustizia, gli alti valori morali, la portano anche ad essere troppo sola: non tutti riescono ad essere al suo livello, che fra l’altro dovrebbe essere il minimo accettabile. La meschinità la fa da padrona, anche con le migliori intenzioni: come si vede nel suo collega che al sindacato come lei ha scalato posizioni importanti; oppure come la precedente capa di Areva, con cui aveva combattuto tante battaglie.
Questi suoi pregi sopra la norma vanno letti alla luce dei suoi limiti, che pure sono patenti: ex alcolista in cura; ha tentato il suicidio, è stata depressa.
Intelligente anche la sottolineatura che, come ai difetti si mescolano i pregi, così ai difetti oggettivi si mescolano i difetti che non possono essere imputati realmente all’individuo in questione: infatti lei da giovane ha subito uno stupro. Che ha subìto nuovamente nelle vicende mostrate nel film.
Con finezza, si mostra come non sia affatto semplice mostrare la differenza tra il male subito e quello fatto, quando si fanno i bilanci sulla caratura umana di una persona. E questi bilanci, nell’ambito giudiziario che qui è decisivo, non possono non essere fatti.
Tale aspetto richiama da vicino quest’altro: quanto sia difficile trovare un limite fra danno inventato e procurato. Il film attizza antiche divisioni fra garantisti e giustizialisti, che si basano anche su dogmatismi che, in quanto tali, sono sempre sbagliati. Non si capisce se tale stupro è stato creato ad arte dalla presunta vittima, oppure se questa l’ha subito veramente. La seconda versione è ovviamente la più probabile, come emerge: ma il confine netto non c’è.
Poi la corretta lettura femminista pervade tutto il film: il cui acme si legge nella necessità di salvarsi mentalmente dallo stupro subito, attraverso la scissione mentale, come ampiamente dimostrato dalla letteratura psicoanalitica, la più autorevole in merito. Per quanto ciò possa apparire in prima battuta contro-intuitivo. La protagonista stessa mostra perfettamente che a lei conveniva non essere lucida, per sopportare quel momento. Momento che aveva già vissuto, peraltro.
La discriminazione femminile poi, più in generale, è (lo dico da uomo eterosessuale, e ci mancherebbe) per fortuna presente in questo film, anche per via della lettura sindacale. Che fra l’altro in Italia da anni (oltre 40!) è sempre più dileggiata e denigrata, dal potere capitalista affermatosi nettamente in tali 40 anni: prova ne è l’orribile stupro del titolo. Il libro da cui è tratto il film, così come il film medesimo, si chiama “La sindacalista”. In Italia lo possiamo conoscere solo attraverso il deturpante titolo “La verità secondo Maureen K.” Nemmeno il cognome, inoltre, può emergere. Pare proprio la lotta per garantire l’anonimato, alle questioni viste secondo l’interesse delle maggioranze offese.
Poi, la protagonista non è perfetta anche perché è troppo buona verso i suoi aggressori, è perfino troppo buona verso i capitalisti che la violentano, in ogni senso. Non si capisce proprio perché lei non denunci - per sfiducia o per eccessivo senso di correttezza verso il dialogo fra le parti sociali - tutto quanto di terribile le capita, che è una spaventosa collezione di reati: borseggi, telefonate minatorie, aggressioni fisiche del suo capo anche durante una riunione… Con la già menzionata finezza piscologica, si rimanda anche alla scorrettezza dell’autolesionismo, paludato per cortesia: no, su qualunque danno subito, da sé o da altri, l’unica possibile reazione è la denuncia. Fare sconti ai propri carnefici non è mai un vero segno di virtù, per quanto potrebbe esserlo di una malintesa bontà; il cristianesimo, poi, ha fatto grossi danni, in tal senso. E ciò ha senso solo nella misura in cui una persona si dà il compito preciso di non essere mai considerato, a buon diritto, carnefice di nessun altro, a propria volta.
Il film ha oggettiva potenza meritoria anche perché mostra come il potere, da sempre (forse), ma in particolare con lo strapotere sostanziale del capitalismo (da 150 anni), premia solo i peggiori: i più scaltri e determinati tra i violenti.
Il capitalismo, fra le altre cose, è anche creazione di colpe per il proprio esclusivo tornaconto economico e di potere; inoltre è inganno, e negazione delle proprie colpe. Chi ci rimette, alla fine, sono i dipendenti, i poveri: le maggioranze, in una parola.
Il film mostra come il potere, oggi in mano al neoliberismo, sia un’associazione a delinquere ad alto livello: tutti i capi sono correi, collusi col potere politico. Magistratura, polizia, quasi tutti chini al potere economico privato, che ha in mano anche il potere politico e mediatico. Potere che non si può scalfire.
Ma c’è il lieto fine, determinato dalla speranza: ci sono delle falle in tale potere disumanizzante. La poliziotta semplice che fa indagini, e che qui appare tra le ricrescite diversamente colorate dei suoi capelli. E trova gli elementi reali per ribaltare una sentenza vergognosa.
E non stupisce che ciò sia accaduto in Francia. A differenza che in Italia e nella maggior parte del mondo, lì (come in Gran Bretagna e negli Usa) gli scandali mediatici possono emergere. E le istituzioni non possono solo evitare di ascoltare, come accade da noi, e come le classi dirigenti hanno sempre cercato di fare, oggi quelle capitaliste.
Un’aureola di santità, in questi decennio, meritano gli insider: gli informatori nascosti, che poi si pentono, e mettono a repentaglio tutto di sé, al fine di lasciare tracce che altre persone, tra i pochi virtuosi, possano usare per affermare la giustizia, per punire i colpevoli e premiare gli onesti e i meritevoli. Il film mostra anche questa categoria, che è mirabile a proprio rischio e pericolo, davvero.
Ma il film mostra anche questa amara, e trita, verità: per chi sta davvero dalla parte della verità i rischi sono immensi. Chi sta davvero dalla parte della menzogna, invece, è atteso da facilitazioni, agi e prospettive di carriera: che gli sono promesse, e che puntualmente arrivano, purché continui nella sua opera delinquenziale, e ovviamente coperta dalla menzogna. Che ovviamente ci si impegna di lasciare impunita, nel capitalismo imperante da quasi mezzo secolo.
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