Regia di Laura Poitras vedi scheda film
Tutta la bellezza e lo spargimento di sangue nella vita di Nan Goldin, fotografa del sesso e delle dipendenze, ex-assuefatta da Oxy, l’abbreviazione per un oppiaceo della Sackler, famiglia proprietaria privata di case farmaceutiche e storica collezionista d’arte. Il documentario robusto e muscolare di Laura Poitras alterna il racconto dell’attivismo presente di Goldin, che con la PAIN vuole debilitare e responsabilizzare il più possibile il nome della Sackler per aver distribuito un oppiaceo pericoloso (e che ha fatto migliaia di vittime), e la sua vita privata dall’infanzia fino all’età adulta: le esperienze artistiche, gli amori (tossici o meno), la prostituzione, le fughe, i lavori come barista, le fotografie, l’aggressione subita da un fidanzato, l’overdose. E sebbene il racconto del passato sia molto più appassionante di quello del presente (per uso saggio e lucido dei materiali di repertorio, mai d’abbellimento ma sempre molto puntuali, con accenni di musiche di Velvet Underground e Suicide), è comunque una dialettica funzionale per presentare un personaggio, le sue contraddizioni, la sua voglia di spogliarsi e raccontare ogni brutto ricordo, il suo umorismo come arma di difesa contro un mondo di cui non si fida per nulla. La fotografia e l’arte diventano davvero il suo rifugio, e il film sotto traccia mostra anche una tensione che è quella di Goldin rispetto a Poitras, della fiducia che la prima riversa nella seconda e di quanto la forma documentario possa sfidare, come nella fotografia, il reale per coglierne una sostanza pura e attendibile, senza approssimazioni. Allo stesso tempo, il nome della Sackler in effige sulle sezioni e sugli allestimenti dei più grandi musei del mondo è per Goldin un tentativo funesto e oscuro di inquinare la sua idea di arte come di sublimazione (del sesso, della rabbia, della paura): togliere quelle iscrizioni ha implicazioni personali oltre che pubbliche.
Non c’è molto da dire sulla forma del film: è un appassionante dialogo/monologo, in cui le lotte del passato e le lotte del presente si corrispondono violentemente e continuamente, e Poitras non ha mai interesse ad addolcire la pillola né ad abbellire il racconto, è schietta e vibrante anche nei sottintesi e nelle virgole. Il quadro che il film dà di un passato di cinema foxcore e queer, fra John Waters e Cookie Mueller, Bette Gordon e Sara Driver, è appassionante e incisivo, così come l’uso della fotografia e del suo punctum barthesiano come sintesi di una vita è bellissimo per come ragiona sull’ibridazione di cinema e, appunto, fotografia. Bello e meno compromettente di quanto appaia a una visione superficiale.
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