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Gli orsi non esistono

Regia di Jafar Panahi vedi scheda film

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La recensione su Gli orsi non esistono

di Peppe Comune
8 stelle

Jafar Panahi si è trasferito in uno sperduto villaggio ai confini della Turchia per girare il suo prossimo film. A Teheran c’è il suo aiuto regista (BakhtiarPanjei), a cui fornisce tutte le direttive del caso in presa diretta. È ospite di Ghanbar (Vahid Mobasheri) e della madre (NargesDelaram), dai quali ha affittato un piccolo appartamento. Le cose scorrono tranquille fintantoché non si trova costretto a constatare che una vicenda d’amore disciplinata dalle regole del villaggio e la storia d’amore dei due attori del film che sta realizzando, sembrano essere due facce di una stessa medaglia : entrambi i sentimenti sono mortificati da forze esterne e più potenti. E Panahi sembra impotente di fronte all’interpretazione della realtà. Anche perché si sente osservato continuamente, e non solo dalla polizia del posto che controlla ogni suo movimento. 

 

scena

Gli orsi non esistono (2022): scena

 

Jafar Panahi è da diversi anni ormai che è un autore sotto il mirino del regime teocratico di Teheran. Ma i suoi film pur, rimanendo opere di aperta denuncia rispetto a diversi aspetti retrivi della società iraniana, conservano sempre una marcata attitudine a non vestire di sfiducia le sorti del genere umano. Anche se non si può certo parlare di aperto ottimismo, il suo cinema non assume quasi mai toni irrimediabilmente pessimistici. Ad emergere è sempre la leggerezza del tocco, che anche quando non architetta la narrazione cinematografica per farsi poesia per immagini, si adopera per allinearsi al semplice verificarsi delle ordinarie vicende umane. 

Questa premessa sulla cifra stilistica di Jafar Panahi per dire che “Gli orsi non esistono” è un film che presenta tratti dissonanti rispetto alla linea poetica che ha percorso la sua filmografia, sia con riferimento alla difficoltà di padroneggiare il rapporto tra realtà e finzione nella produzione di immagini che si sovrappongono l’uno all’altra, sia nella relazione che il Panahi attore instaura con le persone che gli girano intorno, più conflittuale e meno sereno del solito. Due aspetti che con evidente ovvietà finiscono per avere un rapporto inevitabilmente complementare 

Rispetto al primo punto, Jafar Panahi ha spesso usato degli evidenti espedienti metacinematografici lasciando che cinema e vita si scambiassero spesso di posto. Ma se altrove questa cifra stilistica dava in là all’intenzione specifica di riflettere sul labile confine tra la realtà del cinema è la finzione della vita (e penso a film come “Lo specchio” e “Taxi Teheran”), in questo film Panahi mette in scena la difficoltà a padroneggiare i segni che popolano il suo quotidiano, a farli confluire in un disegno poetico dove a prevalere rimarrebbe più l’indulgenza verso il popolo che non ha colpe che la rabbia sottaciuta contro la loro incapacità ad emanciparsi dalle superstizioni.  

Si prenda come esempio assai emblematico quello che è l’elemento catalizzatore del film, ovvero, la presunta presenza di una foto scattata da Panahi che ritrarrebbe due giovani seduti vicino mano nella mano. Il punto è che il maschio non è il fidanzato della donna e questa loro vicinanza così intima comprometterebbe non di poco l'onorabilità del futuro sposo della ragazza. Il rispetto della tradizione diventa quindi il fulcro della vicenda, e la presenza di una foto l’unico tramite tangibile per la verifica della verità. Se non esiste la foto non si può accertare la verità, ma intanto che si verifichi se questa foto è stata scattata o meno, si tende a mettere molto più in dubbio l'assenza di un'immagine fotografica tutta da accertare che la presenza della verità determinata da una foto che non esiste. 

Lo stesso vale per il nuovo film che Panahi sta cecando di realizzare. Lo sta dirigendo dal villaggio ma sul set le cose non vanno per il meglio perché la vita professionale degli attori protagonisti si intreccia con la loro tormentata storia d'amore. Anche in questo caso, il cinema produce altro cinema, la produzione di immagini dissimula la produzione simultanea di altre immagini. Jafar Panahi recita sé stesso in un suo film, mentre sta girando un altro film dove gli attori protagonisti vengono ripresi, non solo quando recitano sul set, ma anche durante le recite della loro vita reale. Insomma, la falsificazione della realtà e la realtà della finzione si scambiano continuamente di ruolo. Una cifra stilistica tipica del maestro iraniano, che questa volta, come già accennato in precedenza, sembra voler adeguarsi allo stato d'animo dell'autore, ovvero, alla sua difficoltà a leggere la realtà che lo circonda, a fornirgli un'interpretazione nella finzione cinematografica e a fare di questa nient'altro che la sublimazione della realtà. 

Questo ci rimanda all'altro aspetto del film : la sottile sensazione di ostilità di cui Panahi si sente assoggettato. L'autore iraniano filma ogni cosa in ogni istante della giornata. Ma allo stesso tempo si sente continuamente gli occhi addosso in quel villaggio sperduto ai confini della Turchia. La sua presenza è ben gradita dagli umili abitanti del villaggio, ma allo stesso tempo rappresenta un peso che il rispetto rigido della tradizione rischia di rendere insopportabile. Questo renderebbe “Gli orsi non esistono” anche un film che riflette sul rapporto tra modernità e tradizione : tra la verità che cerca di fare chiarezza tra le contraddizioni degli uomini e le falsità della superstizione che impediscono ai sentimenti di esprimersi per come sono. Spesso è più comodo piegarsi ai voleri della tradizione che genera uno spirito comunitario condiviso, piuttosto che accertare la verità dei fatti quando questa è verificabile. “Voi in città avete problemi con le autorità. Qui al villaggio abbiamo problemi con la superstizione”, dice molto emblematicamente al regista lo sceriffo del villaggio. Ecco, ci sono tanti orsi in Iran a cui si è disposti a credere dell’esistenza quando questo vale a fornire adeguate rassicurazioni esistenziali, orsi che servono ad incutere timore e a legare le persone e i valori imposti della tradizione ancestrale. 

Il potere teocratico impone il suo oscurantismo, Jafar Panahi lo sa bene, fosse solo perché ne è una vittima prediletta. E in questo film, più che altrove, sembra volerlo denunciare attingendo da un pessimismo più esposto nell’organizzazione complessiva della messinscena. Non basta portare attraverso una connessione wi-fi immagini provenienti dalla capitale dove qualcosa si muove contro le imposizioni di regime. Nelle zone di confine, le persone rimangono isolate dal mondo e la polvere si posa sulle cattive intenzioni. Perché quando il rispetto della tradizione serve a dare sicurezza, i pericoli vengono sempre dall'esterno. 

Grande film, di sobria semplicità 

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