Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
Il teorema-Panahi, nell’urgente necessità di un uomo in fuga, nella sua forma più diretta e pragmatica. È un teorema, No Bears, lineare e millimetrico, in cui Panahi gira un film a distanza (simulando azioni dettate da una sceneggiatura) e intanto alloggia in un paesino vicino al confine con la Turchia, dove scatta foto e forse è testimone di qualcosa che non doveva vedere.
Il film è un film di domande e risposte, di quesiti genuini e di corrispondenze precise, nella consueta tradizione kiarostamiana di nebulosa indistinta tra fiction e non-fiction. Il cinema in Panahi è un personaggio - forse più precisamente l’immagine tecnica e riproducibile -, addirittura una religione, nei confronti della quella Panahi vuole essere onesto fino al midollo, redimendo qualsiasi compromissione, distruggendo la chance del finto e allo stesso tempo ricostruendo il proprio fallimento, mentre si ritrova a fare i conti con un mondo iraniano repellente e aggressivo, illogico e incoerente, quello sì impossibilitato alla redenzione.
Però nella continua dialettica interna al film, che interroga più l’onestà di Panahi che non dello spettatore (concettualmente lasciato abbastanza fuori dall’agone etico), mancano quegli spiragli gratuiti di poesia che in tutta questa struttura filosofica di solito lasciano un margine imponderabile, che è molto del fascino e del mistero del già citato Kiarostami, di Mohsen Makhmalbaf e anche del Tre volti di Panahi. Probabilmente questi spiragli non stavano nelle sue intenzioni, perché No Bears è più un urlo d’aiuto che non una ricerca estetica compiuta; o magari qualcuno può trovarceli, intrecciati alla doppia storyline e contenuti in quei rari attimi di sospensione. Magari ci sono anche, o magari qualcuno non ne sente il bisogno. Ma No Bears sconta il rischio dell’estrema contingenza - Panahi è attualmente in carcere - e quel margine incerto ce lo meritiamo tutti. Anche se forse non ora.
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