Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
Venezia 79. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Il regista Jafar Panahi è ormai nel mirino del regime iraniano da parecchi anni. Ricordo l'emozione quando vidi al cinema "Taxi Teheran" che venne girato con una telecamera nascosta, montata in un anfratto dell'automobile. Panahi si fingeva tassinaro per raccontare il proprio paese senza dare troppo nell'occhio. "Taxi Teheran" era il terzo lavoro a prendere forma in clandestinità. Qualche anno più tardi arrivò il quarto, "Tre volti", girato lontano dalla capitale e dagli occhi del regime. Panahi si conquistò un briciolo di libertà grazie alle terre primitive della provincia in cui a nessuno importava delle frivole faccende giudiziarie di un uomo di città. Panahi poteva entrare ed uscire dell'automobile che nella filmografia recente del regista rappresenta il "rifugio' e la "gabbia" creativa di un'esistenza votata all'espressione libera del proprio pensiero. L'automobile lussuosa di Jafar Panahi, centro di "Taxi Teheran" e fondamentale strumento per trasferire la scena nella periferia inospitale di "Tre volti", ritorna ne "Gli orsi non esistono". Grazie ad essa il regista si sposta in un piccolo villaggio ai confini tra Iran e Turchia ma il suo peso specifico è ben diverso dai precedenti film. Panahi sembra aver goduto, al dodicesimo anno di divieti, degli effetti del disinteresse del potere verso di lui. La maggior parte delle sequenze sono girate nel villaggio e nel set su cui il regista posa il proprio sguardo lontano. La macchina, salvacondotto di un'esistenza in fuga, rimane in attesa, paziente, ad aspettare il momento di partire per un luogo isolato in cui tornare a scrivere e girare con discrezione.
Lo scorso luglio, dopo che le strette maglie del regime si erano allentate, concedendo al maestro l'autonomia sufficiente a produrre un film più arioso e narrativamente complesso, è caduta sulla testa del regista la mannaia dell'arresto. Panahi aveva promosso e firmato una lettera aperta per la scarcerazione dei colleghi Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad, anche loro vittime della repressione del governo ultra conservatore. A Venezia sono state organizzate iniziative a favore dei tre registi ma quel che conta è che il suo "No bears" sia arrivato all'appuntamento con la Mostra. Durante la serata di chiusura il film è stato insignito del Premio Speciale della Giuria. Il leone è stato ritirato da due attori che nel riportare i ringraziamenti di Panahi hanno riferito le parole del regista. "Non dite nulla che possa mettervi nei guai al ritorno". Una frase che suona come un ulteriore sberleffo a Ebrahim Raisi e alla sua cricca.
In un villaggio di confine, dunque, Panahi cerca un luogo sicuro ove sovrintendere la realizzazione del suo ultimo lungometraggio. Un lungometraggio che racconta la produzione di un film. Non un film qualunque ma un film girato in Turchia che narra di documenti falsi, di cittadini iraniani costretti all'esilio e di piste battute dai clandestini tra polizia e banditi senza scrupoli. Nel suo rifugio il Panahi/personaggio dirige il cast con gli occhi di un laptop e la voce dell'assistente alla regia. All'interno di "No bears", dunque, c'è un film in cui una donna e un uomo aspettano di ricevere i passaporti per emigrare in Europa. Il resoconto frustrante dell'attesa, benché considerevole dal punto di vista politico in quanto punta apertamente il dito contro il regime, non è centrale nel film del Panahi/regista. Il cuore della sua creatura è il villaggio dove il Panahi/personaggio viene amorevolmente curato e sfamato da una vecchia donna e dal figlio che gli ha affittato una misera alcova. Lì, con il pretesto di una fotografia scattata durante un momento di svago, il Panahi/scrittore ha il modo di ritrarre una società atavica, invadente, violenta che in nome dalla legge islamica e della tradizione si adopera per mandare a monte la storia d'amore tra due giovani ed adempiere ad un atavico contratto prematrimoniale. Le contraddizioni sono il motore degli eventi. Gli uomini del villaggio invocano il rispetto della Shari'a davanti agli anziani ma non si fanno scrupolo di mentire sul libro sacro per dirimere la disputa tra la parte lesa e le famiglie disonorate. Le foto di Panahi vengono pretese dall'uomo per testimoniare la tresca tra i due amanti davanti al Consiglio degli anziani. In palio c'è una giovane donna a cui nessuno ha mai chiesto il permesso di essere merce di scambio o l'oggetto del contratto tra famiglie che ne invocano la spartizione per rispettare impegni per i quali non ha mai potuto mettere bocca. Davanti all'irragionevolezza di alcuni il film di Panahi si pone come un manifesto della ragione, che pur nel rispetto della religione e delle tradizione, si pone al di sopra di esse evocando una giustizia laica che non appartiene al territorio e nemmeno al paese. Il regista pur sapendo di offendere parte del Consiglio degli Anziani dà testimonianza davanti alla propria telecamera che immortala il suo giuramento. Il cinema è lo strumento della verità, della libertà e della ragione. Panahi giura sulla propria integrità di uomo e di artista utilizzando il mezzo che gli è più caro ovvero il cinema. Uno strumento, il cinema, che supera le superstizioni, l'interpretazione retriva della legge islamica e l'ignoranza che ne deriva.
Il messaggio di Panahi è sovversivo ma non ci sono sbarre che possano imprigionarlo a lungo. Nonostante un finale di morte e disincanto un giorno l'Iran prenderà il sentiero buio e scosceso in fondo al quale ci sarà la luce della coscienza anziché gli orsi pericolosi e famelici della superstizione. Gli orsi non esistono. Esiste solo la paura di ammetterne l'insussistenza. Il miglior Panahi degli ultimi anni in un'opera amara, in una miscela di finzione e realtà dalla quale si libra il pensiero di uomo che nessun nessun regime può imbavagliare.
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