Regia di Paul Schrader vedi scheda film
A History of Violence (Redemption) for the Constant (Master) Gardener.
Una volta espulso dall’Inferno dell’Eden si ritrova a svolazzare sospinto dall’abbrivio dovuto al pareggiar dei conti col proprio passato commissionatogli dall’autorità costituita: il dicotiledone, metà nazista e metà cucciolo di panda (corpo e volto di un impressionante Joel Edgerton: MidNight Special, It Comes at Night, the Green Knight), atterra attecchendo s’un terreno pre-p-arato a mezza via tra una piantagionistica residenza padronale della Black Belt del cotone e – complice una portentosa Sigourney Weaver, qui contraltare (con ereditata Luger P08 parabellum nel cassetto del comò) a “Death and the Maiden” – il FührerBau di Monaco di Baviera: strappa le infestanti e mette radici: l’hortus è conclusus: da giardino utilitaristico, "un incrocio tra un negozio di alimentari e una farmacia", a luogo di contemplazione est-e/a-tica, in cui la natura (la vita) è indirizzata dal lavoro (dal pensiero) umano, con angoli e scorci di selvatico (d’amore): più che lieto fine, lieta diapausa dal circondariale, finitimo, permeante, pervasivo, strutturale e semi-permanente orrore.
“Il danno ora sembra irreparabile, ma… le piante si rigenerano, è quello che fanno. Come noi.”
Questo è il tassello che, assieme a “First Reformed” (Ethan Hawke) e “the Card Counter” (Oscar Isaac), costituisce il recente discorso esplorativo tripartito di Paul Schrader sulla colpa, il perdono, la redenzione, il sacrificio e il riscatto, e in “Master Gardener” c’è pure tempo per una rappresentazione metaforica dell’orgasmo: fiori che fiorendo fanno “Pop!” da tanto fioriscono in accelerazione (come manco gl’imbibiti alberelli anni ‘80 di cartoncino cotonato che durante la notte per evaporazione…
…cristallizzavano infiorescenze: oh, m’è venuto in mente e l’ho dovuto mettere per forza, eh) e l’asfalto che scompare lasciando il posto all’erba: una via di mezzo tra il Garden Glow del Missouri Botanical Garden presente proprio in “the Card Counter” e il finale allucinato di “Dog Eat Dog” o tutto “Dark”, già “Dying of the Light” (Nicolas Cage).
“Il giardinaggio è la manipolazione del mondo naturale. La creazione di un ordine, là dove l’ordine è appropriato. I sottili aggiustamenti del disordine là dove sarebbero efficaci.”
Completano il cast Quintessa Swindell (abbastanza incomprensibile l’utilizzo della CGI de-capezzolinizzante, forse ascrivibile all’edizione digitale, anche perché il contorno/profilo dello scroto ballonzolante del protagonista è lì in bella vista), Esai Morales e Victoria Hill, bravissimi, mentre la “paesaggisticamente spenta” fotografia (di una quiescente Louisiana) è di Alexander Dynan, sodale schraderiano da “Dog Eat Dog”, il montaggio di Benjamin Rodriguez Jr., col regista e sceneggiatore da “Dying of the Light” che divenne “Dark”, e musiche, ottime, di Devonté Hynes (Palo Alto, Queen & Slim, We Are Who We Are), mentre sui titoli di coda scorre “Space and Time” di (Marian Azeb) Mereba. Titoli di testa a guisa d'ikebana/kado (con un pensiero a quelli di Elaine & Saul Bass per il wharton-cocks-scorsesiano "the Age of Innocence").
A History of Violence (Redemption) for the Constant (Master) Gardener: ****¼ - 8½.
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