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Il maestro giardiniere

Regia di Paul Schrader vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il maestro giardiniere

di laulilla
9 stelle

Presentato fuori concorso alla rassegna veneziana (settembre 2023), in cui a Schrader fu assegnato il Leone d’Oro alla carriera, ritirato dall’amico e collaboratore Martin Scorsese, del quale fu talvolta sceneggiatore (Taxi Driver – 1976; Toro scatenato – 1980; L’ultima tentazione di Cristo – 1988).

 

Ultimo film della cosiddetta trilogia della redenzione, quest’ultima opera di Paul Schrader affronta – come le due precedenti “Il collezionista di carte” e “First Reformed” – il tema della perdita dell’ innocenza primigenia (caduta) e della redenzione, preparata da un lungo e tormentoso confronto col proprio vissuto.

 

Sceneggiato dallo stesso Schrader, il film richiama dunque il tema centrale di quei due film, senza dimenticare l’amicizia con Scorsese, citato nelle bellissime immagini dello svilupparsi dei fiori che accompagnano i titoli di testa (e non solo), omaggio alle altrettanto suggestive sequenze che affiancano i titoli di testa in L’età dell’innocenza.

Siamo negli anni ’70. Si chiama Narvel Roth (Joel Edgerton) il giardiniere protagonista della storia: il suo è un lavoro impegnativo, poiché gli è affidata la cura della vasta area verde della lussuosa tenuta di Norma Haverhill (Sigourney Weaver) a Gracewood, in Louisiana, nel sud razzista degli Stati Uniti, in cui predominano i ricchissimi bianchi suprematisti, che – dopo la morte di Kennedy e la sconfitta dei democratici – aspirano alla presidenza degli Stati Uniti.
Per lo più invisibile ai suoi sottoposti, la signora Haverhill esercita il proprio potere tirannico attraverso un’innata prepotenza ricattatoria di cui Narvel è complice e vittima.
Del proprio passato poco confessabile egli conserva tracce ben celate dagli abiti e dalle tute da lavoro: un fitto intrico di teschi e di svastiche orribili tatuati sulla pelle, che non vuole e non può nascondere a lei, padrona e amante, che gli comunica il prossimo arrivo di una pronipote, l’unica erede della ricca tenuta, che, in una terra di coltivatori di cotone africani deportati come schiavi, porta a sua volta, nel colore della pelle i segni di un’origine disprezzata da quelle parti.

Si chiama Maya (Quintessa Swindell), è giovane, bellissima e ribelle a ogni forma di educazione, ciò che secondo Norma è deplorevole, ma in realtà significa che quella nipotina, non accettando di rinnegare le sofferenze dei propri avi, rifiuta di piegarsi ai falsi valori della ricchezza nata dalla sopraffazione violenta e dallo sfruttamento.
A Narvel Norma affida il compito di educarla, insegnandole l’arte del giardinaggio, per attutirne le asprezze e separarla dalla plebaglia che è solita frequentare.
L’incontro con la fanciulla accelera nel maestro il tormentoso distanziamento morale dal proprio vergognoso passato: da tempo egli ricorre, come gli altri eroi della trilogia, alla scrittura (un diario) per far ordine e chiarezza dentro di sé.


Il violento razzismo – all’origine dei sensi di colpa che non trovano una ferma volontà di riscatto – è messo in crisi dall’attrazione sensuale per Maya, creatura dal nome non casualmente schopenaueriano: sarà lei a sollevare il velo che impedisce a Narvel di vedere lucidamente la realtà e di opporre alla violenza l’accettazione della vita, per quanto dominata da leggi imperfette, che non escludono contraddittorie vendette, allo scopo di proteggere dai rischi la natura, nella quale lo sbocciare dei fiori diventa la metafora potente dell’amore.

Film incantevole e sorprendente: un’atmosfera di tensione emotiva si stempera infine nella speranza aperta all’accoglienza di ogni creatura...

Regista e attori in stato di grazia, davvero.

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