Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film
Dopo aver vinto nel 2008 il Leone d’Oro alla 65° Mostra del Cinema di Venezia con The Wrestler, Darren Aronofsky torna nuovamente al Lido con The Whale, sua prima collaborazione con la blasonata A24, e pellicola in corsa agli Oscar 2023 con ben 3 Nominations, presentato in Italia a partire dal 23 febbraio da iWonder Pictures.
Autore controverso (!) de Il Cigno Nero, Requim for a Dream, The Fountain e Madre!, Aronofsky questa volta mette su schermo un dramma dalla fortissima impronta teatrale ispirato all’omonima pièce scritta da Samuel D. Hunter, autore anche di questo adattamento cinematografico, e presentato in un festival in Colorado nel 2012 e successivamente arrivato off-Broadway, ed è lì che il regista lo ha conosciuto e se ne è innamorato.
Sebbene di finzione l’opera presenta comunque importanti elementi biografici del suo autore, cresciuto a Moscow in Idaho e professore (di saggistica) alla Rutgers University, dichiaratamente omosessuale e in passato afflitto da gravissimi disturbi alimentali, elementi che fanno di The Whale un film “parzialmente” autobiografico.
Già all’attivo in campo televisivo (vedi la serie Baskets con Zach Galifianakis), l’autore dimostra invece di avere qualche difficoltà ad adattarsi ai tempi (e agli spazi) della settima arte, presenziando a uno script praticamente identico alla sua versione teatrale e un adattamento quasi pedissequo che non cerca nemmeno di sfruttare il mezzo cinematografico per “aprire” il racconto, con tutti i limiti che ne derivano soprattutto a livello di regia, con Aronofsky che prende (volontariamente?) le distanze da una certa sperimentazione formale per abbracciare invece una messa in scena molto più classica e ortodossa, pur conservando l’attenzione per gli spazi e un certo personale estremismo riversandola per l’occasione nel processo autodistruttivo del protagonista.
Il teatro è Cinema...
...o il cinema è Teatro?
In fondo nel cinema di Aronofsky, pur abbracciando spesso l’onirico (o il naturalismo), è piuttosto costante il tema del corpo umano e della sua trasformazione (ma senza deformazioni fantascientifiche alla Cronenberg) in una declinazione anche verista ma spesso declinata sull’incubo: un corpo logorata dagli infortuni (The Wrestler) o distrutto dalle sostanze stupefacenti (Requiem for a Dream), trasformato (o rielaborato?) dalla gravidanza (Madre!) e spinto oltre i propri limiti dalle proprie ossessioni (Il Cigno nero) o inesorabilmente minacciato dal tempo che passa (The Fountain) oppure, come in questo caso, deturpato/rovinato dal cibo (e dalla commiserazione).
Ma il titolo di The Whale (la balena) non è soltanto un riferimento alla grottesca mole del protagonista ma lo è anche al romanzo di Herman Melville, Moby Dick (il cui titolo completo è infatti Moby Dick or The Whale), citato spesso nella pellicola soprattutto in quanto i veri temi del celeberrimo romanzo sono propriamente l’ossessione e (soprattutto?) il dolore della perdita e di come questo possa portare all’autodistruzione, fisica e psicologica, di un individuo.
Ma nell’opera di Hunter (e quindi di Aronofsky) oltre alla salute mentale e al decadimento fisico sono presenti anche altre questioni (anche più preminenti?) come l’identità sessuale e, quindi, la discriminazione, le dipendenze e la perversione della fede come anche il valore dell’insegnamento, della sincerità e della generosità ma anche l’egoismo o la paura della morte in un affastellamento di temi e argomenti che sono poi delizia (l’intensità del racconto) ma inevitabilmente anche la croce (apparendo a volte confusa o anche forzata) della pellicola in quanto interstizio (!) tra pessimismo e fiducia (nel genere umano) e tra inquietudine e bisogno di riscatto svelando un retroscena ideologico ma soprattutto morale che si aggrappa al concetto di fede (ma umanista, non religiosa) e alla conquista della redenzione attraverso soprattutto il sacrificio (e della carne?) in un concetto già espresso dal regista nel suo The Wrestler.
Ma a far brillare la pellicola è soprattutto la performance maiuscola di Brandon Fraser (ricordato soprattutto per l’iconico/ironico ruolo de La Mummia di Stephen Sommers) che domina la scena con un’enorme (!) gamma espressiva in quello che sostanzialmente è un evidentissimo one-man show.
Rimasto lontano dalla scena più importante per una sfortunata serie di (eventi) problemi (un grave infortunio, un caso di molestie e un problematico divorzio lo hanno portato alla depressione e a problemi di peso) che hanno finito per tagliarlo fuori da Hollywood, con The Whale arriva la sua grande occasione di riscatto in un ruolo che si spinge ben oltre le sue sfide precedenti.
Sepolto dentro a un grottesco costume stampato in 3D da Adrian Morot (The Lighthouse, M3gan), l’attore di Indianapolis ci regala una grandissima interpretazione costruita totalmente sull’impostazione della voce e su uno sguardo potente ma gentile in cui traspare tutta la fragilità di un uomo sconfitto dagli eventi.
Fraser sembra nato per il ruolo e, ad oggi, è difficile pensare che al suo posto avremmo potuto vedere o il comico britannico James Corden, a lungo considerato dalla produzione come il protagonista naturale quando alla regia era ancora associato lo stilista Tom Ford (A Single Man, Animali Notturni), o, ancora prima, addirittura George Clooney (!).
Ma il film di Aronofsky può contare anche sull’apporto del resto del cast, a partire dalla splendida Sadie Sink (Stranger Things, Fear Street) nel ruolo tutt’altro che semplice della figlia di Fraser, e dell’ottima prova di Hong Chau (Downsizing, The Menu) mentre completano il cast Samantha Morton (Minority Report, The Walking Dead) e il giovane Ty Simpkins (Insidius, Jurassic World, Iron Man 3).
«Non credo che nessuno possa salvare qualcuno»
The Whale è un film ricco di stratificazioni e che si presta a diversi livelli di lettura, è pessimista ma anche commovente, ha ottime qualità e offre grandissime prove attoriali non ristrette soltanto al suo, peraltro, splendido protagonista ma presenta comunque alcune criticità e una mancanza di elasticità imputabile innanzitutto a un’origine teatrale dal quale lo sceneggiatore, tra l’altro autore dello stesso, non riesce a distanziarsi abbastanza relegando il regista a soluzioni di maniera e/o poco ispirate, e diversi elementi si incastrano per eccessive coincidenze, con diverse forzature e troppe soluzioni di comodo.
Inoltre, lo sguardo insistito su quel corpo deforme, per quanto non determinante per la sua “preziosa” metafora, rimane comunque un elemento piuttosto ricattatorio e che non chiede ma pretende partecipazione, compassione ed empatia con eccessiva faciloneria, mentre le sue allegorie (su Moby Dick, ad esempio) si rivelano completamente soltanto a uno spettatore davvero molto (troppo?) preparato.
Anche il flashback finale sulla spiaggia, un ricordo dell’ultima volta in cui erano ancora una famiglia poco prima della decisione che avrebbe cambiato le loro vite per sempre, può essere frainteso dal pubblico come un finale comunque positivo (di serena accettazione se non addirittura di rivalsa o riscatto personale) mentre in realtà cela, per me, un messaggio invece molto più drammatico in quanto il pensiero va a un momento immediatamente precedente a una scelta (anche egoistica, se vogliamo, del protagonista) che in ogni caso ha rovinato le vita di quattro persone nel sogno di un’auto-realizzazione personale che è destinata però ad andare comunque in rovina.
VOTO: 7,5
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