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The Whale

Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film

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La recensione su The Whale

di EightAndHalf
6 stelle

Lo step immancabile per un “regista estremo” è il melodramma. Non esiste genere più cruento, e Darren Aronofsky, che si è fatto la fama di regista di culto con film di diverso lignaggio (dalle follie esaltanti di mother al moralismo sotterraneo di Requiem for a Dream), forse l’ha capito, forse l’aveva capito già con The Fountain, ma qui decide di eccedere in un altro modo, stando chiuso in una casa e circondando il suo enorme protagonista, Brendan Fraser, come se fosse un centro di gravità intorno a cui i personaggi ruotano inevitabilmente, attratti da qualche verità o semplicemente sospirando per la sua non troppo lontana morte. Infatti Charlie, diventato obeso grave dopo la morte del compagno, si ritrova ricomposti i pezzi della sua misera vita quando la morte sta per sopraggiungere: la cognata dallo spirito missionario, un giovane esponente della setta che rovinò la vita al compagno, la figlia abbandonata anni prima, l’ex moglie, il ragazzo delle pizze. 

Tratto da una pièce teatrale, ma trasformato forzatamente in cinema tramite queste continue panoramiche “interne” al salotto di Charlie, come se la camera fosse un pianeta intorno al sole-Fraser, i drammi di questi uomini e donne schiacciati dall’amore e dalla morte si stendono - loro sì, molto teatralmente - attraverso ogni possibile pretesto, con un “cattivo gusto” nelle scelte delle battute e delle frasi che in fondo è Aronofsky allo stato puro. Perché il melodramma è sempre stato uno spettacolo di marionette, e a Aronofsky interessa più mostrarle e spostarle nel campo visivo che non realmente indagarne l’interiorità. Quando lo fa, vengono fuori personaggi contraddittori, folli, pieni di bene ingenuo o di male cieco, professori che invitano i loro studenti a scrivere frasi oneste (stile insegreto, per chi bazzica) piuttosto che a fare saggi analitici; ragazzine crudeli che fanno uso smodato e immorale dei social; donne frustrate, lacrimevoli, dipendenti. 

Come si addice a un melodramma folle, ogni personaggio ha preso una decisione nella vita per troppo amore diretto in una sola direzione, ma troppo amore paradossale genera genocidi. Ogni azione buona ne genera una cattiva e viceversa: è il caos. Aronofsky con questo suo Oscar bait strappalacrime come se ne facevano 30 anni fa, cerca di aggiornare la teatralità alla Tennessee Williams ai tempi dello spirito indie dell’A24, e nel bene o nel male genera un film disturbante e lercio con eleganza patinata e, più che insincera, sadica. Un cyberpunk dell’anima: Fraser con le sue protesi che gli permettono il movimento e le cose di cui è piena la sua casa che concedono ad Aronofsky tutti i pretesti giusti, come in una complessa macchina generatrice di patetico. 

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