Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film
Non rimandare a domani quello che puoi/dovresti fare oggi. Questo proverbio lo conoscono tutti, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, per giunta talvolta in burrasca, e quanto parrebbe a portata di mano è in molti casi più facile a dirsi che a farsi, semplice da pensare ma altrettanto complicato – se non addirittura impossibile - da attuare. Certo, ogni iniziativa ha i suoi tempi, ma gli scatti in avanti avvengono in troppi casi quando il traguardo è alle porte, i giochi sono quasi del tutto chiusi e la deadline sta per sbucare da dietro l’angolo, senza ammettere/consentire la materializzazione di alcun dietrofront.
Detto che il tempo perso non te lo restituisce più nessuno, quando la clessidra sta per ultimare il suo corso, non tutto può finire come auspicato, poiché ciascuno – per età, orizzonti temporali, vissuto e ruolo interpretato nella contesa - ha dissimili riflessi di elaborazione, una propria sensibilità, un subbuglio interiore e un background percettivo che necessitano di un timing purtroppo non disponibile.
Da quando ha perso il suo compagno, Charlie (Brendan Fraser – La mummia, Viaggio al centro della terra), un professore universitario che tiene lezioni esclusivamente da remoto, ha deciso di recidere i ponti con qualunque tipo di rapporto con il mondo esterno. Sigillato in un’umile dimora e soverchiato da un fisico che ha raggiunto l’insostenibile peso di 250 chilogrammi, viene accudito da Liz (Hong Chau – The menu, Showing up), l’unica persona che frequenta dal vivo.
Quando capisce che la sua ora è ormai giunta, cerca ristabilire un dialogo con Ellie (Sadie Sink – Stranger things, Eli), la figlia – adolescente e irrequieta - che non vede da anni, mentre un giovane membro di un’organizzazione religiosa di nome Thomas (Ty Simpkins – Insidious, Jurassic World) si presenta alla sua porta cercando di donargli una differente prospettiva.
Avrà l’occasione di rivedere anche la sua ex moglie Mary (Samantha Morton – Minority report, The messenger), ma tutte le attenzioni e le esigue energie che gli rimangono sono destinate a Ellie, nonostante quest’ultima sia quanto mai restia ad abbassare la guardia, a perdonare un’assenza che l’ha resa intrattabile, un corpo estraneo alle regole della società.
Tratto da una pièce teatrale di Samuel D. Hunter e prodotto dalla celeberrima A24 (Everything everywhere all at once, C’mon c’mon, It comes at night), The whale è un film che Darren Aronofsky coltivava da all’incirca un decennio, che casca a fagiolo per levarsi di dosso le scorie lasciate dal controverso Madre! e dal dispendioso Noah, come già gli era successo in precedenza con The wrestler, che arrivava a valle del rimbombante insuccesso di The fountain – L’albero della vita.
Strutturato su un formato video stringente, che amplifica la stazza ingombrante e condizionante del suo protagonista assoluto, così come una distanza di osservazione che è sempre ravvicinata, è un dramma da camera soffocante e immersivo, che affronta svariati temi – delicati e salienti - senza mai nascondersi dietro un dito.
Nella fattispecie, stabilisce e mantiene una marcatura stretta del suo punto luce, attorno al quale orbitano satelliti che si passano il testimone, per approntare/affrontare riflessioni che a turno germogliano sottotraccia o vengono esplicitate a voce alta, ciò che riguarda il soggetto del caso specifico e concetti di natura universale.
Così, fermenta su una duplice tipologia di condizioni umane. Da una parte quella prettamente fisica, con l’obesità - un disturbo determinato da cause esterne - che non vogliamo vedere considerandola respingente, che fatichiamo ad accettare generando vittime sistematiche di giudizi emessi a tavolino, dall’altra quella umana, con legami interrotti bruscamente, barriere insormontabili, alcune edificate negli anni e altre erette sul momento, corpi e spiriti segnati in maniera indelebile, tra solitudine e isolamento.
Fratture a cascata inflitte/espresse/interfacciate a cuore aperto, sanguinante, praticamente a pezzi, con i postumi del passato che gravano/gravitano sul presente, il bene e il male che si accavallano tra buone intenzioni e torti incancellabili, personaggi schiacciati/stritolati/sbriciolati da unità di luogo e di tempo, cappe che spingono verso conseguenze estreme e inappellabili.
Infine, la chimica tra autore e interpreti è miracolosa, quasi scioccante. Supportato da un trucco prostetico che accentua la sua già considerevole mole, Brendan Fraser è assolutamente superlativo per emotività e presenza, perfetto a partire dal suo status di star di inizio duemila finita anzitempo nel dimenticatoio, mentre Sadie Sink, Hong Chau, Ty Simpkins e Samantha Morton riempiono e impreziosiscono la scena, avendo tutti in comune sguardi penetranti che finiscono per essere avvolti dalle lacrime.
Nel complesso, The whale è una spugna intrisa di dolore, un film di autentica sincerità e dall’elevato coefficiente empatico. Un collage stratificato di sensazioni/venature interconnesse e indipendenti, con un tratteggio che fa (s)correre brividi lungo la schiena mentre sfoglia i vari paragrafi che decostruisce addentrandosi in un tappeto ricco di agonie.
Tra deformazioni e assenze, sfoghi e chiarimenti, rinunce e scelte, sospiri e singhiozzi, smarrimenti e rancori, relitti alla deriva e influssi speranzosi, un’accettazione affranta e un disagio straripante, corazze protettive e debolezze scoperte, tentativi di riscatto e viali del tramonto che non contemplano vie d’uscita, squarci di luce e scatti rabbiosi, carezze negate e scelte trancianti, questioni in sospeso e anime in pena, lunghi addii e sfide quotidiane.
Struggente e intenso, di disturbante integrità.
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