Regia di Florian Zeller vedi scheda film
Dopo The Father, The Son. Dopo Saint Omer, in concorso a Venezia 79, un altro film in concorso in cui (al posto della maternità) ad essere condizione (malattia?) geneticamente trasmissibile è la paternità, incapace di comprendere e ostinata sempre sugli stessi errori, che sia o non sia corredata da un sentimento amoroso sincero. Florian Zeller perde la struttura cerebrale di The Father (che costringeva la storia di una malattia in un meccanismo un po’ troppo razionale, “scenico”) per addentrarsi in un dramma classico, con apparente gesto maturo e serio ma in realtà cedendo al melodramma spicciolo e verboso. L’irricevibile trama di The Son osserva il figlio di una coppia di genitori divorziati (lui Hugh Jackman risposato con Vanessa Kirby con un altro figlio piccolo, lei Laura Dern) che comincia a soffrire di depressione, e loro, i genitori, non sono in grado di rendersene conto davvero, cercano di curarlo ma “non basta” e prendono decisioni drastiche accecati dall’amore. Intanto il figlio accusa la madre di rendergli la vita impossibile e il padre di averlo abbandonato molti anni prima: è lui, il figlio, che “semplifica” il suo dramma personale e la sua depressione dandole un’origine ben precisa, oppure la semplificazione la fa proprio il film? La malattia del figlio ha davvero un’origine sconosciuta e indefinita, o sono i genitori a plasmarla in un certo modo a causa del loro senso di colpa?
Questa è una delle poche cose che non ci è dato sapere, perché per il resto Zeller (forse ancora dedito a quella razionalità inappropriata di The Father) tiene a illustrare tutto, a far spiegare i suoi personaggi, a farli girare in tondo e a parlarsi addosso, rendendo vana qualsiasi potenziale ambiguità; al posto di incoraggiare l’identificazione o una vera tensione drammatica, a ogni evento lo spettatore ci arriva prima di loro, rendendo qualsiasi tipo di twist e di coup de theatre ridicolo – e anche un po’ di cattivo gusto. Se anche il dramma fosse irrimediabilmente filtrato dalle ansie del padre, mostrando solo il suo punto di vista (ipotesi legittima), sarebbe comunque un alibi per giustificare la pigra monodirezionalità del film, per trasmettere una colpa netta e precisa allo spettatore (il colloquio con Hopkins intollerabile), e questo inquadra troppo il personaggio di Jackman e lo riduce a una vera e propria macchia sullo schermo.
A fianco dell’assenza di qualsiasi spettacolo emotivo – e chi scrive si augura anche di qualsiasi intenzione realistica – c’è l’evidente disagio degli attori protagonisti a recitare battute scontate e frivole ad ogni scena, mentre la camera gira loro circospetta attorno (quasi sempre impaurita dallo starsene ferma come meglio gli si addirebbe, specie in termini di studio di ambienti e interni), irrequieta e sfiduciata dalla possibilità che la sceneggiatura parli per sé. Sottolineature, campi/controcampi piatti, uno dei ralenti più brutti degli ultimi anni di cinema, un what if finale da annali del patetico: Zeller non si sforza neanche un po’, e la stoccata finale sulla necessaria fiducia nella medicina (di per sé ben accetta), oltre che della cecità dell’amore genitoriale, rischia addirittura una tesi didascalica che rivela un intento sociologico, e a quel punto l’imbarazzo diventa palpabile. La presenza in concorso a Venezia 79 è dovuta al marchio Rai Cinema a inizio film, altrimenti non si spiega.
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