Regia di Alex Schaad vedi scheda film
Leyla e Tristan sono giovani e innamorati. Quando la ragazza conduce il suo compagno su una misteriosa isola remota, a cui sembra di appartenere da sempre, inizia un gioco di identità sessuale e corporea che metterà in discussione il loro rapporto che fino ad allora credevano solido.
La pellicola scritta da Alex Schaad, a quattro mani con il fratello Dimitrij, così come i suoi protagonisti, non sembra avere un’identità definita, non sembra appartenere a nessun genere finora conosciuto. Parte come un thriller, con un tangibile mistero che aleggia nell’aria fin da subito, ricordando forse per la scelta di una comunità unita da un credo unico o forse per l’ambientazione, quel Midsommar del più celebre collega Ari Aster, per poi arrivare nella riflessiva parte centrale in cui i dialoghi diventano più fitti e gli argomenti ruotano attorno all’importanza di un corpo rispetto all’anima che contiene, trasformandosi nel finale in una pellicola quasi horror, con qualche punta di fantascienza, in cui il bene si confonde con il male fondendosi in un connubio dai risvolti inaspettatamente romantici.
Il film dei fratelli Schaad si lascia guardare, ti trascina in un mondo ipotetico ma non impossibile, in cui l’identità di genere non ha senso di esistere ma anzi, lo scopo della comunità e del suo maestro/a è proprio impartire la capacità di alternarsi, traslarsi nel corpo di uomo piuttosto che in quello di donna, e prenderne l’esperienza necessaria a capire che l’involucro non può avere la stessa importanza di ciò che contiene e che la vita dopotutto non è altro che un’esperienza sensoriale percepibile dall’anima attraverso lo strumento che finisce per abitare: il corpo. Da qui il titolo tradotto Skin Deep (letteralmente Pelle in profondità) trasformato rispetto al più diretto titolo originale Aus meiner haut (Fuori dalla mia pelle), che esplicita (o almeno ci prova) il senso di quello che ci viene mostrato: noi siamo realmente nell’Io più intimo, nell’essenza più che nella sostanza.
L’argomento trattato è complesso, troppo affascinante per poterlo ridurre ad un concetto singolare, meriterebbe di essere ampliato proprio per non rischiare, come accaduto in questo caso, di tralasciare alcune cose o di non approfondirne altre, finendo per presentare un lavoro finito che effettivamente non lo è ma che si porta dietro quel senso “non so che” che purtroppo non ce lo lascia piacere fino in fondo.
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