Regia di Samuel Fuller vedi scheda film
White dog non paga a distanza di tempo le accuse ingiustificate di razzismo che il film ha subìto alla sua uscita, ma l’adattamento ad un’estetica più composta e più formale che negli anni 80 ha riprodotto scenografie e messinscene tendenti all’intrattenimento più spettacolare e patinato con gran parte dei suoi interpreti, almeno quelli impegnati nel cinema mainstream, confinati in ruoli e stereotipi molto ben definiti. Non che White dog si debba considerare un’opera minore di Fuller, ma la sua visione analitica, spietata e pessimistica si scontra con l’arrendevolezza ideologica e un vuoto senso acritico di appartenenza che ha caratterizzato quel periodo storico. Fuller mantiene comunque viva la sua concezione emotiva della violenza del quotidiano, come fosse una condizione esistenziale vera e propria molto più presente nella realtà di quanto si creda. La giovane aspirante attrice Julie si prende cura di un grosso cane bianco che si scoprirà essere addestrato ad attaccare persone di colore. In un centro di “addomesticamento” per animali da utilizzare nel mondo dello spettacolo, un addestratore afro americano, Keyes, cercherà di rieducarlo su richiesta della ragazza. La visione ambientale del regista viene sempre concepita come un vero e proprio campo di battaglia, e gradualmente si focalizza su di una grande gabbia metallica circolare nella quale il cane bianco e il suo rieducatore cercano di entrare in contatto, metafora dell’intera società. Ogni personaggio assume una rilevanza simbolica piuttosto evidente, pur mantenendo quelle caratteristiche di ambiguità che ne proteggono una condizione reale più vulnerabile di quanto mostrino. Julie è una ragazza genuinamente vuota e tardo romantica, con sorrisino ebete e la fascia nei capelli come una suffragetta dell’aerobica di Jane Fonda, probabilmente contaminata dall’illusionismo reaganiano, che a tutti i costi non vuole staccarsi dall’infantilismo che la lega al cane. L’altro addestratore del centro di recupero degli animali Carruthers, è il vero elemento di confronto con il cane bianco. Accecato da fervori pseudo progressisti o liberali a secondo della convenienza personale, vuole liquidarne sbrigativamente le implicazioni e le conseguenze dei comportamenti violenti dell’animale e vede nella figura di Keyes l’indiscutibile rimedio che può depotenziare l’aggressività del cane, oppure sopprimerlo. Incarna la passività e la mancanza di volontà di affrontare alla radice il malessere di una società che contiene anche razzismo e intolleranza. Keyes, il nero, è l’unico che sa guardare il male negli occhi e che può sfidarlo. La sua condizione atavica di “schiavo” liberato lo pone allo stesso livello di Carruthers ma la sua iniziativa può incidere in modo significativo, il risultato come vuole la regola del regista, non confina né esaurisce il problema, anzi ottiene un effetto deflagrante e amplificato che ha dato voce alle critiche e ad un certo sospetto che ha aleggiato intorno a White dog per parecchio tempo. In una scena spassosa (l’unica per la verità) Fuller interpreta sé stesso e davanti alle rimostranze di un suo operatore sul set di ripresa che non approva il materiale girato, così gli risponde: in Francia tutto questo la chiamano arte.. sai come dice Truffaut? ..Formidable..
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