Regia di Sylvain George vedi scheda film
Una quantità infinita di confini, bordi, barriere, recinti, e mille ragazzi marocchini che cercano di superarli, rischiando articolazioni delle gambe e dita delle mani, fra cadute rovinose e fili spinati. Nel porto di Melilla, distretto spagnolo in Marocco da cui partono le navi per l’Europa, tantissimi giovani adulti che vogliono scappare dal loro paese si aggirano vagabondi in luoghi fantasma. Si tuffano a mare, cucinano con mezzi di fortuna, dormono dentro buchi e grosse tubature, guardano il mare urlando e raccontando il mondo da dove vengono e quello in cui vogliono andare. Alcuni camminano, si arrampicano, piegano fili spinati, scalano rocce, costruiscono barchette con gli scarti. Altri si rotolano fra i rifiuti, scalfiscono pareti di grotte coi loro nomi come segni rupestri, e fissano la gente della civiltà partire.
Con Nuit Obscure Sylvain George perlustra tutti gli angoli più oscuri di un luogo di transito in cui è tutto immobile, un cimitero di morti viventi che sembra una gigantesca carcassa che però ancora respira, e il film come un corpo organico ma in fin di vita ondeggia fra una scena e l’altra (tra ogni scena una dissolvenza in nero), e dentro le scene sta fermo o si muove, all’inseguimento ramingo di questi giovani corpi senza alcun vero obbiettivo, clandestini senza patria.
Lo stile di Sylvain George, già attivo da parecchi anni, è il risultato di un’idea matura di documentario che non ha nulla da invidiare ad altri maestri contemporanei come Wang Bing e Frederick Wiseman. Documentario d’osservazione con lo spirito del reportage-guerriglia, Nuit Obscure asseconda i ritmi dei suoi giovani morti viventi elaborando un esercizio di cubismo e di respirazione.
Cubismo, perché? Il cubismo nell’arte figurativa chiede alla rappresentazione di dare un’istantanea di tutte le dimensioni con cui è percepibile un oggetto, per restituire una verità che la pittura sembrerebbe non possedere ma che la vista reale di qualcosa invece ci consente. Al cinema la percezione immediata di un oggetto si avvicina di più alla sua percezione “reale” o “nella realtà” di quanto non succeda nella pittura, ma rimane comunque il dentro di un quadro, un piano, un elemento 2D che riproduce fotograficamente ma che potenzialmente annulla l’idea che il campo visivo sia un cono con origine in un occhio, con tanto di zona d’ombra. In Nuit Obscure Sylvain George propone inquadrature di luoghi - episodio per episodio - che si compongano come in una ricostruzione cubista. I procedimenti di ripresa del regista possono infatti essere elencati in una lista a due punti: o lui si siede/si ferma e si guarda intorno, girando su se stesso, scomponendo l’azione ma spostandosi di poco per poter riadattare allo sguardo gli spazi in cui si muovono le persone, oppure si muove con le persone stesse e le tallona, interrompendone la continuità spesso con jump cut, ritmi bruschi e scarti violenti. Di ogni azione scenica o luogo, riusciamo ad avere una percezione trasversale e completa. Ma Sylvain George non è né Wang Bing, che farebbe sentire concretamente una camera poggiata su un tavolo in mezzo a tazze e stoviglie, e non è Frederick Wiseman, che nei suoi film separa ogni episodio con quei cambi di contesto ozuiani in cui si muove sornione fra spazi nuovi e geometricamente, come in uno zoom spezzato, si allontana e si avvicina ai suoi soggetti, per poi entrare in altre dialettiche. George invece ricostruisce la quadridimensionalità della ripresa non in modo logico e razionale, ma imperniandosi su dettagli (visivi e sonori), attorno a cui ruota come una leva, avvicinandosi e allontanandosi, con la conseguenza stilistica di ricostruire gli spazi di un luogo che manco più luogo è, privandolo di una parte della sua parvenza che sottintenderebbe uno statuto di realtà che nei fatti, George, non può accettare. È un cimitero di morti viventi, Melilla e i suoi abitanti esistono ma non esistono. È un cubismo rarefatto per riprodurre uno spazio inesistente.
Ma Nuit Obscure è anche un esercizio di respirazione. Perché respirazione? Perché i jump cut su citati, e tutta la post-produzione in generale (un’orgia di ralenti, fps shakerati e grana da sovraesposizione), sono il modo per scandire un respiro. Un esercizio fisico che si può fare durante il film è respirare al suo ritmo. Oltre a dare un tono di ondeggiamento perpetuo di qualcosa che per nessuno scopo vortica su se stesso, questo tipo di cadenza offre allo spettatore un pericolosissimo appiglio. La respirazione infatti, quasi sempre regolare (le inquadrature durano tra 5 e 10 secondi, a costo di spezzare la continuità di un evento in jump cut azzardati), è in realtà talvolta interrotta in modo traumatico; il più delle volte questo trauma è indotto da un rallentamento, da un soffermarsi su qualcosa, da un momento di pathos impossibile, o di sospensione che rievoca un senso di pausa infinita. Per esempio quando i migranti si appiccicano addosso merce di contrabbando con lo scotch: mentre teniamo il respiro, loro si schiacciano il busto stretto contro bottiglie e scatole, e i jump cut per un poco si fermano, quasi a riprodurre un soffocamento. Oppure ancora, in modo decisamente più subdolo, una sequenza più ipercinetica può arrivare a mascherare quei jump cut rendendoli impercepibili, come quando da dentro un auto George riprende a rotta di collo kilometri e kilometri di barriere, e si teletrasporta su recinti sempre diversi ma tutti uguali, trasformando il respiro in un silenzioso singhiozzo.
Questa operazione mastodontica di montaggio è il tratto realmente distintivo dell’opera-monstre di Locarno 75. E riesce comunque a evitare di trasformare il film in un esercizio di avanguardia fine a se stesso; è invece un’immolazione assoluta del cinema a un luogo che sembra impossibile esista, ed è una possibilità pericolosa e accattivante, dal nitore salgadiano bianco e nero, di poter toccare con mano quell’impossibilità e tuffarcisi dentro.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta