Regia di Ming Jin Woo vedi scheda film
Stone Turtle è un film sulla possibilità di modificare e manomettere il mito. Parte con una storia che procede linearmente, fornisce i nessi di causa ed effetto; e poi quella storia viene riscritta, almeno 4 volte, con variazioni, capovolgimenti e incoerenze. Alcuni eventi sono irrinunciabili: una donna muore lapidata per aver avuto una figlia illegittima; la sorella adotta la bambina e la porta su un’isola; un uomo arriva sull’isola. Il modo in cui prosegue la storia sta nell’interpretazione e nelle suddette variazioni. I perni fuoricampo sembrano essere due fantasmi, la sorella lapidata e il fratello dell’uomo. E invece la variazioni faranno shiftare il perno, porteranno causa ed effetto a scambiarsi e i protagonisti a confondersi.
Ed è proprio il punto del film, riscriversi, ad opera della protagonista (“I changed the plan”), alla luce dei suoi piani ambigui e imperscrutabili. Che sia un cambiamento legittimo o crudele, possiamo credere che sia ovvio dal tema più superficiale del film: la storia di una donna che rivendica la sua dignità. E invece è più che mai sdrucciolevole la sua confezione; non perché confonda davvero, ma perché potrebbe farlo e invece non rinuncia al suo statuto di film di genere, di rape & revenge, di film violento a cui interessa il ritmo. E quindi va paradossalmente dritto, spiega ogni inquadratura, dà pari dignità al suo mito originario e al suo inquinamento apocrifo.
Questo film è facilmente ascrivibile ad altre operazioni del Sud Est Asiatico: quando la bambina legge il fumetto (notate, prima è una supereroina che si allunga come Elastigirl degli Incredibili, poi è Miss Marvel e Loki), in testa viene l’indonesiano Gundala di Joko Anwar, e il suo modo così superbamente poco sudcoreano di rifare l’Occidente, cioè in modo sgrammaticato, da B movie; quando la storia devia la sua bussola, viene invece in mente Samui Song di Pen-ek Ratanaruang, dalla Thailandia, furibondo pulp mediocre ma di indimenticata ambigua energia. È per questo contesto che forse Stone Turtle (forse meglio comunque di entrambi i film citati) non piomba davvero come fulmine a ciel sereno. Ma è bello quando una scena che avrebbe potuto girare Apichatpong Weerasethakul (un fantasma, una spiaggia, il leitmotiv dell’ingresso di una grotta per alludere alla fine di una delle “variazioni”) non è affatto agghindata dall’eleganza posticcia di un film pensato “autoriale” (quella dei millemila imitatori del grande Joe) e invece arriva con la sua sfacciata tense music, evitando di imbambolarsi e invece muovendosi a costo di correre cadere e farsi male.
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