Regia di Ann Oren vedi scheda film
Siamo quello che ascoltiamo. Eva sta cercando di creare il suono giusto per uno spot pubblicitario di sensibilizzazione contro la depressione, e in particolare si sforza di trovare il rumore giusto per alcuni gesti che coinvolgono un cavallo. Scontenta dei suoi risultati, e preoccupata per la sorella Zara chiusa in una clinica, comincia a notare che una strana escrescenza le sta spuntando alla fine della colonna vertebrale: è una coda di cavallo, e sembra che le amplifichi enormemente il piacere sessuale. Sia che si tratti di una metafora della transizione di genere, sia che invece parli della riscoperta più generale di un piacere senza confini, Piaffe di Ann Oren è un disastro poco interessante che dilata e scioglie il suo ritmo con le soluzioni più scontate del cinema d’avanguardia: non solo enfatizzando il suo carattere metanarrativo (fino alla caricatura involontaria), ma utilizzando le imperfezioni delle riprese in pellicola come elemento formale attivo nelle visioni della protagonista. E dunque via di stacchi rumorosi, grana, raccordi analogici, tutti atti a conferire materialità a una ricerca del piacere che trova sempre nuove soluzioni, ma che non può fare a meno di fronteggiare il passato, in particolare nella figura della sorella transgender, il cui simulacro impalpabile è sempre più presente e ossessivo nella vita di Eva. Come se desse una chiave univoca a un piacere troppo fluido. Un film manierato che sembra parlare di cose di cui non comprende né sente quasi nulla, un’esperienza ridondante e ridicola.
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