Regia di Hilal Baydarov vedi scheda film
Per Hilal Baydarov la morte è un elemento del paesaggio, e si esprime con lente coreografie funebri in cui ogni elemento della realtà parla e respira anche dopo che si decompone e muore. Il paesaggio azero è la consueta landa dispersa dei suoi film, con alberi silenti che si aggrappano alla terra e strade che attraversano deserti come arti spezzati. Baydarov tiene molto a costruire ogni immagine come se inducesse l’idea di uno schema, salvo poi rivelare che quello schema è impossibile e irrealizzabile: una distesa d’acqua che divide l’orizzonte fra sé e il suo riflesso, una porta che incornicia nel buio una donna coperta dal burqa, che è avvolta a sua volta dal buio più pesto, una rete che squadretta l’immagine ma spezza irrimediabilmente l’integrità della scena. Sermon to the Fish è tutto questo, una ricerca in alta definizione più vicina all’ultimo Crane Lantern che non al nebbioso In Between Dying, i cui fasti sono irrimediabilmente lontani. Baydarov, che ha a malapena intenzione di raccontare una storia, men che meno una fiaba come in In Between Dying, si accomoda un po’ troppo in un formalismo stucchevole, a cui si riconosce una potenza di primo impatto visivo e che ha una sua personalità, convinto com’è che da concept tarriani di apocalissi silenziose si possa fare un concerto ambient che è più un rituale che non una litania. Però, anche a causa dell’insistente musica e della fissità geometrica delle sue inquadrature, l’effetto finale è più quello di un lavoro amorfo e in itinere, che non vuole deprimere coi suoi temi bellici e post-umani (astraendoli verso altre potenzialità) ma può deprimere per come si ripetono senza urgenza espressiva alcuna.
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