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Leone l'ultimo

Regia di John Boorman vedi scheda film

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La recensione su Leone l'ultimo

di EightAndHalf
8 stelle

Il grottesco oggi si è fortemente evoluto da quello anni '70, che era espressione spesso sincera di tempi 'ruggenti' e costituiti da uno stimolante idealismo, un ottimismo/pessimismo attivista che prendeva come ispirazione il recentissimo e mitico '68. Leo the last però non parla delle rivoluzioni, o meglio, non direttamente. In prima analisi Boorman, più scalmanato e movimentato che mai, prende in considerazione il carattere di Leone, ultimo discendente di una dinastia di sovrani che hanno ceduto il posto a una sorta di strampalata repubblica socialista sui generis. A voler prendere il potere, però, attraverso l'attività di Leone, è un folle club che inneggia al trionfo di una misteriosa Saragozza. Compresso fra due pazzie, ricchezza e povertà, antipodi della fatale tenaglia sociale, Leone cercherà di venire incontro a una parte e all'altra, partecipando a sedute psicologiche pseudo-intellettuali che dovrebbero riportare alla vitalità degli istinti da un lato e osservando con un binocolo la vita degli uomini di colore che abitano il quartiere dove si trova la casa regale dall'altro lato. Incapace di farsi comprendere da un'artistocrazia sempre più fellinescamente animalesca e da un sottoproletariato risucchiato dalla Harlem più bassa che non capisce cos'è il bene, mentre fa esperienza del razzismo, del potere, dei vizi e della bestialità di tutti gli esseri umani senza distinzione, sovrapponendosi ad essi per dignità grazie alla sua bonaria ingenuità, cercherà di dare una svolta al mondo, di farsi piccolo eroe morale, instaurando un conflitto, che poi diventerà guerra vera e propria, contro la sua stessa classe sociale d'origine, che a sua volta lo taccia di pazzia. Nonostante Leone si ritrovi così tra le file dei rivoluzionari, egli ne risulterà sempre lontano, incompreso, un Frankenstein shelleyano che scopre le dinamiche umane e si fa un'idea delle immense contraddizioni umane, e che comincia a osservare gli uomini allo stesso modo in cui osservava i piccioni. Mastroianni dà tonalità e spessore a un personaggio che non è caricatura ma allegoria, condivide gli occhi di uno spettatore che anche oggi, nel nuovo millennio, è spiazzato da certe scelte registiche e stilistiche, a partire dalle ricorrenti voci fuori campo assolutamente contrastanti con le immagini, come se a tratti sentissimo spettatori viziati dal nostro lato dello schermo che commentano il film e la sua bizzarria. Nella mente e nello sguardo di Boorman sopravvive moltissimo cinema - Dreyer, Fellini, Pasolini -, nello sguardo di Mastroianni quel ruolo di reietto disperso nel sistema, bello e/o nobile in una realtà sporca, inquadrata non elegantemente ma in maniera scattante e sconnessa, con un coraggio che era tutto di altri tempi, e che nel nostro paese Pasolini ci aveva insegnato dannatamente bene. 
Non si dimenticano facilmente sequenze come la festa nobiliare che diventa orgia impazzita, con tutti i volti dei riccastri che sghignazzano e mangiano come animali, così come non si dimentica la morte del nonno della famiglia di colore che Leone comincia a tallonare con lo sguardo (come un James Stewart anche più impotente), morte causata da un suo (di Leone) atto di carità. Insolito, un po' invecchiato ma lubrificato da numerose situazioni azzeccatissime, Leo the last fa respirare il sociale, il morale e il filosofico, attraverso una satira mai fine a sé stessa né fastidiosamente scomoda, come potremmo trovare in certo cinema del periodo. Crudeltà e paradossi profondamente boormaniani (questo è uno dei suoi film migliori), possibili solo in un'umanità che si credeva alla fine, all'Apocalisse, ma che non aveva ancora visto il XXI secolo.

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