Regia di Nanni Moretti vedi scheda film
Giovanni, regista famoso, sta girando un film ambientato nel 1956 nel quale una compagnia circense ungherese in fuga dalla madre patria si rifugia in Italia grazie all'accoglienza offerta da un segretario di sezione comunista. Nel frattempo succede di tutto: Paola, moglie di Giovanni, decide di lasciarlo proprio mentre sta lavorando come produttrice di una pellicola truce diretta da un giovane e acclamato collega di Giovanni; la figlia trentenne della coppia presenta ai genitori il suo nuovo fidanzato: un diplomatico polacco del doppio della sua età; il produttore francese del film di Giovanni viene arrestato e il regista, pur di terminare le riprese, si trova costretto a dialogare con alcuni dirigenti di Netflix, che a priori detesta.
Forse la chiave di lettura de Il sol dell'avvenire – la principale, tra le tante – è tutta racchiusa nella breve sequenza girata al cinema, quando sul grande schermo viene proiettato il finale de La dolce vita, con Mastroianni sorridente, incapace di intendere le parole di Valeria Ciangottini. Anche perché di felliniano questa volta Moretti ci mette molto, scopertamente, tra psicanalisi, sindrome di 8 e ½ e quel finale corale-circense; eppure la sensazione che Il sol dell'avvenire sia una pellicola sull'incomprensione è forte. Sull'incomunicabile, sull'incomunicato, sul fraintendimento, sui limiti della comprensione umana in generale. Moretti per primo ha dei limiti e li ammette in maniera arresa, con la più completa onestà: non capisce questo cinema 'moderno' fatto di spettacolarizzazione della violenza, non capisce il successo di Netflix (nella scena più esilarante di tutto il film), non capisce perché non ci si parli in maniera più chiara, sincera, soprattutto nei legami sentimentali; non capisce neppure dove i produttori trovino i soldi per sostenere economicamente la complessa lavorazione di un film, ma accetta la sua ignoranza in fin dei conti. Pur continuando a mantenere il suo punto di vista e a esprimerlo in modo lucido e coinvolgente: gli si può dare tranquillamente torto, perché il suo mondo sembra davvero al tramonto (quello cinematografico, quello politico, quello sentimentale), ma occorre riconoscere che il regista sa ancora raccontare una storia e lo sa fare in maniera originale, con delle idee e delle ragioni. Fatta la tara di una discreta mole di ingenuità nei dialoghi e nelle situazioni – non poche sono le scene irrisolte, per es. quelle dallo psicanalista – rimane comunque un'opera degna di entusiasmo, specie per l'Italia del 2023, e il finale è – sì, filtrato dall'estetica felliniana, ma – quanto di più morettiano ci si potrebbe attendere: una ventata di ottimismo alla fine del tunnel, con la piena consapevolezza che la speranza sia pura follia: e quindi tanto vale sperare nell'impossibile, nell'utopia. Che è poi il sogno del comunismo, del sole dell'avvenire. Interpreti: Moretti, Margherita Buy, Jerzy Stuhr, Silvio Orlando, Barbora Bobulova, Teco Celio, Mathieu Amalric con camei di Corrado Augias, Renzo Piano, Alba Rohrwacher, Lina Sastri, Renato Carpentieri, Jasmine Trinca e Fabio Traversa. Sceneggiatura del regista e di un tris al femminile: Valia Santella, Federica Pontremoli e Francesca Marciano. 7/10.
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