Regia di Nanni Moretti vedi scheda film
In fretta e furia, prima che la maggior parte delle sale italiane chiuda per l’estate, è arrivata la volta del nuovo film del Nanni nazionale. Con un mese d’anticipo sulla presentazione al Festival di Cannes per racimolare qualche soldo e qualche spettatore perché, si sa, nessuno va più al cinema da metà maggio in poi, e poiché la mancanza di uscite pesanti rende possibile occupare molte più sale del previsto, eccoci, dunque, a contemplare il “Sol dell’avvenire” a lettere cubitali impresso sulle mura del fiume. Con un occhio alla propria sopravvivenza Moretti opta per il tardo aprile e non risparmia qualche frecciatina all’italia del cinema e al mondo della produzione. Del resto tutto gira intorno ad un film di cui è regista lo stesso Giovanni. Il film è ambientato nel 1956 in un quartiere romano dove risiede il direttore dell’Unità, la luce è appena arrivata ad illuminare le notti ed un circo ungherese è giunto per deliziare grandi e piccini. Ivi si consuma la storia tra il direttore e la sarta del quartiere, storia che si complica, per questioni ideologiche, quando i sovietici invadono Budapest.
Moretti salta in avanti e in dietro mettendo in scena un passato da sanare senza perdere di vista il presente, la sua relazione con la compagna produttrice e le difficoltà a girare un cinema del cuore anziché dei muscoli.
C’è tutto Moretti in questo suo ultimo film teso a celebrare le meraviglie del cinema. Il covid ha lasciato un segno sistemico sull’industria dei sogni ed anche Moretti, cosi come molti altri artisti in quest’ultimo anno, sente il bisogno di celebrare il cinema e la sala. La summa del Nanni-pensiero aleggia sul prodotto finale per cui il “prendere o lasciare” del caso si adatta particolarmente agli indecisi.
Alcuni principi della filosofia morettiana rimangono inattaccabili tanto che il regista sente la necessità di ricordarcelo attraverso le parole del regista, come se non bastasse il film a rendere il tutto adeguatamente palese. Così Giovanni si produce in una filippica atta a dimostrare l’inutilità della violenza in un film che la moglie produttrice sta girando per le strade di Roma. Moretti cita Kieslowski e quei setti minuti di “Breve film sull’uccidere” in cui si vorrebbe al più presto che la violenza dell’assassinio finisse. Moretti si accanisce sulla rappresentazione della brutalità umana il cui vero contenuto è stato sin troppo distorto dalla spettacolarizzazione e dall’intrattenimento. La violenza dovrebbe esprime il disgusto dello spettatore, e la sua rappresentazione (artistica) dovrebbe comunicare qualcosa di più del mero divertissement, attraverso un linguaggio dell’immagine orientato a dimostrarne il turpe contenuto. È questa la sentenza dell’architetto Renzo Piano che assieme a Corrado Augias offre la spalla al regista intento a boicottare l’ultimo ciak di un banale film alla “Gomorra”, uno dei tanti prodotti in Italia sulla scia dell’originale. La rappresentazione della violenza nel cinema non è una novità per il regista romano la cui polemica sulla questione dura almeno da trent’anni. A contrario è ovviamente recente la posizione assunta nei confronti delle piattaforme streaming che tolgono aria alla distribuzione e alla produzione cinematografica. Moretti fa nomi e cognomi e Giovanni rinuncia agli elefanti di Netflix per non ridurre la propria creazione artistica a numeri, minuti e schemi prestabiliti che rendano il film distribuibile in 190 paesi. Il siparietto è comico. Netflix appiattisce le idee così Moretti saluta idealmente il colosso dello streaming con la manina di Mastroianni, ripreso nell’ultima sequenza della “Dolce vita”, che immagina di rivedere in sala insieme ai giovani protagonisti del nuovo film a cui sta pensando da tempo.
Le posizioni del regista sono dunque chiare benché dia l’impressione, stavolta più di altre volte, di prendersi un po’ meno sul serio e di lasciarsi andare ad un pizzico di ottimismo. Per concludere con la filosofia morettiana non poteva mancare il revisionismo politico di chi credette nella fede rossa del P.C.I. e rimase tradito dalle posizioni del partito davanti alle storture del mondo sovietico. Moretti strappa la foto di Stalin, cita Rosa Luxemburg e Gramsci, lancia una frecciatina nei confronti del giornalismo allineato dell’Unità e contro la pochezza intellettuale e umana dei suoi membri recentemente descritta da Gianni Amelio ne “Il signore delle formiche”.
Si ha l’impressione che Moretti ci abbia lasciato un testamento spirituale costituito dalle sue idee e da tutto ciò che abbia influenzato il suo modo di vivere e pensare: libri, canzoni, film. Impossibile non citare la bellissima interpretazione corale di “Sono solo parole” e la spontanea danza verdiscia al suono di “Voglio vederti danzare”. Dal punto di vista cinematografico Moretti cita “Lola” di Demy, Apolcalipse Now di Coppola ed il film dei Taviani “San Michele aveva un gallo”. La reppresentazione de “La caccia” di Arthur Penn è uno dei momenti più briosi e riusciti in cui il meno convincente dei Moretti, ovvero sia l’attore, riesce a divertire senza apparire saccente e rigido come una scopa. Anche questo è Moretti e mi chiedo spesso cosa sarebbero i suoi film senza di lui.
Chiudo infine questo breve disamina applaudendo il lavoro del regista che mostra tutta la sua autoironia nella rappresentazione dei rapporti tessuti da Giovanni con la moglie e con la troupe. Troppo impegnato e assorto dai suoi pensieri e dalle sue priorità il protagonista non vede ciò che gli sta attorno, non nota il malumore della compagn(i)a, non comprende la difficoltà degli attori a lavorare con lui. Tra autobiografia e psicanalisi un passo in avanti per capire se stessi e riderci su.
Solo l’ironia e l’auto-assoluzione porteranno, forse, ad un finale distopico, ad una marcia pacifica, ad un finale migliore di quello reale.
Charlie Chaplin Cinemas - Arzignano (VI)
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