Regia di Justin Martin vedi scheda film
La prima impressione del titolo che diventa senso comune e trattato giuridico: il cambio di paradigma verrà vissuto sulla propria pelle.
Tessa è una giovane e brillante avvocato penalista (“A lawyer’s job is not to know. It’s to not know!”) proveniente dalla classe operaia, una purosangue del suo mestiere che si è fatta strada nella vita e nel lavoro per meriti acquisiti sul campo e che ora si trova di fronte a un evento inaspettato (ma non sconosciutole, in teoria: “This is not love!”) che la costringe a muoversi in un territorio in cui il potere patriarcale del diritto e della legge, l’onere della prova e la morale divergono, collidendo e mettendo in discussione l’eticità delle regole del gioco: ritrovandosi dall’altra parte della sbarra di un’aula di tribunale.
Jodie Comer – classicista (recitare può essere un lavoro, e un lavoro può essere una ragione di vita), declamatoria (potentissima), generosissima (infaticabile stakanovista replica dopo replica di qua e di là dell’Atlantico), metodista (nel senso di Stanislavskij e Strasberg & Actors Studio): “Killing Eve”, “the Last Duel”, “Talking Heads: Her Big Chance”, “Help”, “the End We Start From”, “the BikeRiders” – alle soglie dei trent’anni fa il suo debutto sugli assiti dell’Harold Pinter Theatre, nel West End londinese (cui poi seguiranno quelli del John Golden Theatre di Broadway, NY), diretta da Justin Martin (“the Lovers” ), portando in scena con un tour de force (dicotomico rispetto al “Bovril Pam” di “Snatches: Moments From Women’s Lives”) quest’one person show ch’è la pièce teatrale – a tratti commoventemente didascalica, didattica, edificante, e per il resto attraentemente ammaliante: lo streaming o la copia digitale “valgono” in/per potenza le sale teatrali e cinematografiche: non ci si alza, e nemmeno si riesce a stornare lo sguardo e distogliersi dall’ascolto – dell’australiana Suzie Miller, già allestita con successo (con un’altra attrice impegnata nella mezza maratona, Sheridan Harbridge) nel paese d’origine dell’autrice e per l’occasione musicata da Self Esteem (aka Rebecca Lucy Taylor).
In somma, da “La difesa non deve dimostrare che lei ha acconsentito. Bisogna solo precisare che lui non sapeva che non esistesse il consenso!” a “Il viso di mamma. Non posso fare a meno di pensare che lei sappia cosa vuol dire essere violata in qualche modo. Non glielo chiederò, mai.”
Uno yogurt, un archivio (allestimento di props - raccoglitori e portadocumenti - luminosi che per sinestesia può ricordare la mente-coscienza di HAL 9000), una voce: si comincia: un palcoscenico, una scenografia, una donna.
Una manciata di cambi d’abito; vomito, sputo, sperma; pioggia che cade, e un corpo ritto ben in piedi.
The Queen vs. “a” Man.
In fondo, si tratta di un’educazione sentimentale alla vita. (Dove gi studenti sono gli spettatori.)
Non un capolavoro da Olimpo teatral-cinematografico, ma un’opera imprescindibile dall’oggi e all’oggi necessaria.
La prima impressione del titolo che diventa senso comune e trattato giuridico: il cambio di paradigma verrà vissuto sulla propria pelle.
* * * * (¼) - 8.25
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