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Cento domeniche

Regia di Antonio Albanese vedi scheda film

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La recensione su Cento domeniche

di Souther78
4 stelle

Albanese presenta un'opera impegnata, nelle ambizioni, ma troppo superficiale, irrisolta e lacunosa per centrare nel segno. Meglio di lui ha fatto senza dubbio Morabito, con il suo Il venditore di medicine. Si apprezzano gli scopi e la narrazione intellettualmente onesta, che, però, non decolla da un lato e non graffia dall'altro.

 

Cento domeniche, si dice, occorrevano a un operaio negli anni '60 per costruirsi la casa. Lavoro, casa e uno stipendio fisso sono tradizionalmente la piattaforma sulla quale erigere la propria famiglia, quindi la vita. In una società capitalista e materialista fondata sul lavoro, o, per meglio dire, sul suo sfruttamento da parte dei ceti dominanti, la massima ambizione di "libertà" per la maggior parte delle persone consiste proprio nel conseguimento di un posto di lavoro, attraverso il quale sprecare la propria vita, emarginandosi dagli affetti e da sè, per arricchire il datore di lavoro e uno stato parassitario, e (faticosamente) ottenere il minimo indispensabile alla sopravvivenza propria e dei propri famigliari.

 

Il film di Albanese tocca un tema scottante della contemporaneità, cioè la connessione inscindibile tra individui e banche, ormai esasperata dall'uso massiccio di strumenti di pagamento dematerializzati, e dal sempre più diffuso acquisto online. Il regista racconta di aver voluto deliberatamente staccarsi dai clichè cari al cinema odierno, rifiutandosi di celebrare vite patinate, e, invece, dedicando finalmente spazio agli oppressi, sempre più numerosi, di una società vittima di sistemi patologici.

 

Cinema di denuncia allo stato puro, che rinuncia per definizione a qualsiasi indulgenza e compromesso. Non si comprende per quale ragione Filmtv lo qualifichi come "commedia": si tratta di un film drammatico a pieno titolo. Per non dire tragico. Si fatica a ricordare perfino un singolo sorriso in tutta la visione: onore al merito dell'autore, che non ha inteso concedere sconti, nè compiacere il pubblico.

 

Le atmosfere, come gli animi, sono grevi e tutto ciò che avvolge il protagonista sembra improvvisamente precipitare in una spirale irreversibile, tra incredulo e frastornato.

 

"Normalità" è sicuramente il principio informatore dell'opera, ma anche dello stile recitativo, che sembra perfino dimesso, probabilmente proprio per coerenza con il resto: Albanese ci ha abituati a ben altre doti attoriali, che spaziano abitualmente dal dramma spinto alla commedia demenziale e trasformista. Difficile, quindi, credere che a mancare sia il talento del protagonista: sembra più logico, invece, attribuire questo stile dimesso all'immedesimazione nella persona media.

 

L'autore, in un'intervista, ha dichiarato di aver approfondito notevolmente la questione affrontata, documentandosi in proposito a lungo, e conclude: "Io difendo il sistema banche, è solo colpa di un paio di criminali che infettano tutto". Quest'affermazione contraddice le premesse: le banche sono il braccio armato di qualunque regime neoliberista, e in particolare in Europa e Stati Uniti. Sono promanazioni dirette di poteri concentrati e accentratissimi. La maggior parte delle banche "statali" sono ormai entità private, a partire dalla Federal Reserve americana, che dietro un'apparenza istituzionale (il board of governors), cela in realtà banche private. La Banca d'Italia è una SPA, il cui primo azionista è Unicredit spa. La banca centrale greca è una società per azioni, con importanti azionisti stranieri oltrechè greci. Dietro a tutti i principali istituti di credito del mondo, poi, si celano i soliti noti: Rothschild e Rockefeller. Non è un caso che gli individui di spicco della massoneria e dei relativi governi fantoccio escano da Goldman Sachs, la banca d'affari Rothschild: così Draghi, così Macron, Prodi, Barroso, Monti. E la cosa simpatica è che taluni si spacciano pure per essere di sinistra, pur avendo simili background. C'è un dato verificabile che dimostra come le banche non siano "un" male, ma "il" male che alimenta tutto il resto in occidente: tre giorni prima che l'allora capo della FED, Greenspan, parlasse pubblicamente, alcuni investitori chiave compravano o vendevano determinate azioni. Dopo il discorso del capo della FED, regolarmente quegli investimenti si dimostravano assai remunerativi, a causa di rialzi o ribassi notevoli. La morale è che l'intera economia è una trappola per topi, poichè le "crisi" non sono altro, se non strumenti di controllo e pianificazione deliberati. Ogni "crisi" (non solo economica, ovviamente, ma qui ci limiteremo a questo) è in realtà un problema (vero o finto) strumentalizzato per conseguire un risultato. Basti vedere che la stessa fondazione della FED è venuta all'indomani di una delle miriadi di "crisi".

 

Insomma, il regista afferma di essersi documentato, ma le sue conclusioni personali sembrano perlomeno "miopi". Allo stesso modo, nell'opera non riceviamo grandi informazioni, nè di tipo "storico" (episodi realmente accaduti), nè circa le dinamiche che condurrebbero alle tanto stigmatizzate truffe. Per la verità, lo stesso meccanismo che si prospetta alla base del problema è molto poco chiaro, scarsamente verosimile, e comunque ripetuto n volte senza però mai fornire migliori dettagli.

 

Se il film rinuncia (deliberatamente?) a una trama avvincente, a personaggi interessanti, a dialoghi frizzanti, a una narrazione d'effetto, dall'altro lato non arriva neppure vicino al documentarismo, mancando qualsiasi spessore nella descrizione dei problemi e delle questioni affrontate. Insomma, è veramente difficile trovare un punto di forza in queste Cento domeniche, che, specie nel finale, sembra collassare su se stesso, esagerando all'inverosimile qualcosa che non viene neppure preparato nel corso della proiezione. Inoltre non può sfuggire la eccezionale concomitanza di disavventure che, all'unisono, colpiscono il nostro: il tutto finisce per assomigliare al racconto di un uomo tremendamente sfortunato, anzichè alla denuncia di un problema, che forse ambiva a essere.

 

Le intenzioni di Albanese sono notevoli, e meritevole è la sua decisione di non ricorrere a espedienti per attirarsi i favori del pubblico, offrendo un'opera semplice e coerente con i propri ideali. Purtroppo, il rovescio della medaglia è la totale assenza di interesse che la vicenda suscita, che spesso sfocia nella vera e propria noia e ripetitività. Il fatto, poi, di non aver fornito allo spettatore alcun elemento utile alla comprensione del fenomeno denunciato induce a concludere che il film abbia il fiato decisamente corto, non venendo risollevato neppure dalla parte documentaristica, assente.

 

In definitiva, un'opera la cui visione lascia l'amaro in bocca: troppo debole per una seria denuncia (vd. Il venditore di medicine, per esempio), e troppo insignificante per conquistare il pubblico in sè e per sè.

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