Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
In “Rapito” è come se Marco Bellocchio pronunciasse un lungo discorso filmico, inarrestabile, con avanti e indietro nella storia di questo Paese. Con la figura di Edgardo Mortara aggiorna le schegge di follia e ribellione che hanno accomunato tanti suoi personaggi: dal Sandro de “I pugni in tasca”, al trio di protagonisti di “Salto nel vuoto”, fino al Benito Mussolini di “Vincere”, Ernesto Picciafuoco, Paolo Passeri e così via. Edgardo passa dai puntuali riti ebraici al fascinoso latino in Ecclesia del dogma cristiano. Che cosa è un dogma? Chiede un faustiano Papa Pio IX ai piccoli ex ebrei rieducati all’infallibile dottrina cristiana. Negli occhi intelligenti e vivi del piccolo Mortara leggiamo il cammino di conversione, l’attenzione, il desiderio di imparare (per ritornare subito in famiglia?), di vedere e comprendere una nuova prospettiva di vita: di disciplina, di preghiera, di credo. I lampi di lucida follia alla Bellocchio sono l’abbraccio e le lacrime con la madre (altro baluardo da somatizzare per il piccolo); il voler buttare a Tevere la salma del Papa, subito dopo averlo difeso dall’assalto dei patrioti italiani (uccidere il proprio padre spirituale); tentare da prete la conversione cristiana della madre ebrea sul punto di morte. E poi ci sono i sogni, rivelatori di sintomi e desideri: di accelerazione del processo di conversione dei piccoli ebrei (l’incubo della circoncisione del Papa); la liberazione di Cristo prigioniero in croce da parte di Edgardo (la ribellione, altro tòpos bellocchiano); Edgardo adulto sogna i genitori lasciati a 7 anni (sotto il velo dell’ipocrisia religiosa probabilmente). Altro gesto folle resta la spinta a Pio IX, seguita dalla penitenza delle tre croci leccate in terra. Mortara, in abito talare, tornato a casa per l’estremo saluto alla madre, subisce una spinta dal fratello bersagliere, liberatore d’Italia dal potere temporale dello Stato Pontificio ma non dall’Edgardo soldato di cristo, prigioniero del dogma. Rimandi ad altri momenti e “spinte” del suo cinema sobillatore di conflitti interiori ed esteriori. Attraverso la vicenda del bambino rapito dalle autorità ecclesiastiche, il regista insieme agli inediti collaboratori in fase di scrittura Nicchiarelli e Albinati, mette in scena e in moto una ennesima grande opera: appassionante, serrata, avvolgente, politica e polemica su un periodo storico, prima e dopo la breccia di Porta Pia. Lo sguardo sulle ingerenze della Chiesa non è più ideologico come ai tempi di “In nome del padre” o tranchant come in “L’ora di religione”. Però il messaggio, lo spirito critico e inquieto giunge lo stesso a destinazione della istituzione religiosa, specie in quel finale che trasmette il senso di solitudine di una scelta così radicale.
L’intensità di “Rapito” ci arriva immediata, anche grazie a dei bravissimi interpreti, perfettamente plasmati dal regista: bambini espressivi e autentici nella loro spontaneità e curiosità; i genitori addolorati e sconfitti di Fausto Russo Alesi (l’urlo conclusivo in tribunale) e Barbara Ronchi (stupenda con quegli occhi mobili e interrogativi); Paolo Pierobon (prova superlativa nei panni di un Papa severo e sottilmente perfido); Filippo Timi, poche pose per restituirci il rigore del non possumus, l’austerità e la riservatezza della fortezza vaticana; l’oscuro domenicano Feletti di Fabrizio Gifuni, sintesi delle aberranti figure degli inquisitori; il febbrile Leonardo Maltese, Edgardo adulto; i volti rinnovati di Paolo Calabresi e Renato Sarti; il feticcio Bruno Cariello che con la voce di vetro è solito annunciare nel cinema bellocchiano avventi ed eventi, talvolta funesti. Musiche straordinarie di Fabio Massimo Capogrosso.
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