Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Lo sguardo e il cinema di Marco Bellocchio rapiscono ancora
Lo sguardo e il cinema di Marco Bellocchio - uno degli ultimi grandi - rapiscono ancora a quasi sessant’anni dall’esordio nel 1965 con I pugni in tasca, che già conteneva i temi che il nostro avrebbe sviscerato nel corso di una carriera più che onorata: la famiglia, la religione, la ribellione. Rapito racconta la vicenda di Edgardo Mortara, nel 1858 sottratto alla famiglia all’età di sei anni dai gendarmi dello Stato Pontificio; ebreo, ma battezzato di nascosto da una servetta timorosa che potesse morire e rimanere nel limbo cristiano per l’eternità. Una storia assurda e anacronistica, oggi come all’epoca in cui si svolse, gli anni del razionalismo e delle rivendicazioni laiche liberali. Il bambino fu rapito per volere del papa Pio IX, l’ultimo Papa Re, affinché crescesse come cattolico in un collegio gesuita: Edgardo diventerà sacerdote e abbraccerà convintamente la fede cristiana, rinnegando per sempre le proprie origini ebraiche; sullo sfondo la Storia, con la nascita del Regno d’Italia, la breccia di Porta Pia e la caduta dello Stato Pontificio.
Il film, summa della poetica del regista, è un horror cristiano in cui la religione appare come il più terribile dei mali e Bellocchio conquista con una potenza espressiva di rara intensità, almeno nel cinema italiano di oggi: la carrozza che sfreccia nella notte portando via il piccolo Edgardo per le vie strette di Bologna non si dimentica e sembra uscita dal Dracula di Coppola, così come non si dimenticano le carezze materne delle donne sconosciute che accolgono, docili e servizievoli vampire, il bimbo nella sua nuova prigione dorata. Ogni gesto delicato e ammantato di carità cristiana sembra avvolgere Edgardo nelle spire di una fede soggiogante e seducente, che irretisce l’individuo riversandogli addosso dosi massicce di un amore non richiesto e costringendolo ad essere grato, in quanto amato incondizionatamente da un Dio che libera. E che invece Edgardo vede piantato sulla croce sbucare da ogni angolo, come l’uomo nero nelle fiabe della buonanotte: un corpo morto dalle fattezze disumane e deformate dal dolore. Viceversa, sarà proprio il piccolo Mortara a liberare Dio, strappandogli dalle palme i chiodi pesanti e consentendogli finalmente di scendere da una croce troppo presente in quel mondo cattolico così nuovo ai suoi occhi. Un mondo caloroso e amorevole, così diverso dall’intimità fredda eppure accogliente della casa paterna, dove ogni sera si recitava lo Shemà Israel con la certezza di non essere soli. Come quando si gioca a nascondino prima di andare a dormire e poi non resta che nascondersi dalle pieghe della Storia sotto la gonna della propria madre. Dopotutto, se Dio vede ogni cosa e nulla gli è estraneo cos’altro resta da fare? Se non nascondersi, o urlare con tutto il fiato che si ha nel petto di buttarlo nel fiume quel porco di un papa.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta