Regia di Mario Martone vedi scheda film
Rimanda a tutta una serie di “documentari emulatori” sul cinema, questo documentario di Martone sul massimo genio attoriale (e registico) di Troisi: da un lato Il mio viaggio in Italia di Scorsese (le spaziosissime scene non tagliate, lasciate lunghe così come sono, di fronte a cui Scorsese ammetteva la sua “inferiorità”), dall’altro The Great Buster di Bogdanovich, in cui la storia di Buster Keaton sembrava una lunga spiazzante gag dal finale amarissimo. Ecco, queste due caratteristiche tornano in Laggiù qualcuno mi ama: Martone che non ammette un’inferiorità ma lascia parlare direttamente la sua “fede” come di fronte a un’icona intoccabile, e Martone che costruisce il film con i toni e le atmosfere della carriera di Troisi, incupendo i momenti bui e illuminando le variegate gioie della vita dell’attore campano. Ne deriva un dolce requiem come di fronte ad una lapide, toccantissimo con la cadenza di una preghiera, in cui chiunque (tra gli intervenuti: Goffredo Fofi, Ficarra e Picone, Paolo Sorrentino, Anna Pavignano) svolge un ruolo come in un rituale funebre. Se il rischio “statuario” è inevitabile - con Martone che cerca di parlare di tutto di Troisi, senza lasciarsi mancare le virgole, come uno studente bravo a un’interrogazione - meno inevitabile era il discorso leggermente remissivo sulla napoletanità. Discussa da Troisi (viene detto più volte) ma quasi soddisfatta da Martone, che asseconda il simulacro dell’attore, lo può analizzare ma non lo discute, come un critico bravo ma troppo entusiasta. Questa gioia non è cieca e indiscriminata, ma allunga il documentario fino al rischio stucchevole, emulando l’effetto che può avere una colonna sonora che ripete all’eccesso melodie di Trovajoli, di Morricone, di Bakalov. E il documentario su un cantore immortale di incertezza e fragilità diventa un (commovente, appassionante, curioso) colosso di più di due ore, certo di tutto, con una strana fiducia nella Storia. Non gliene si fa una colpa, è anche bellissimo come Martone si mette in scena, interagisce con tutti, sfoglia con commozione il diario di Troisi. Ma serviva una statua così lucente e immobile per raccontare un genio di tale mutevolezza e mobilità?
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Si serviva! Concordo su alcune lentezze, non ha la fascinazione di Ennio (anche quello sopra le 2 ore) ma è un omaggio tutt'altro che funebre al cinema e ai suoi interpreti.
Scola ha usato la fiction con Splendor , Martone l'analisi dei personaggi di celluloide in cui Troisi si e specchiato e con cui ha dialogato
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