Regia di Edward Yang vedi scheda film
Vite straordinariamente normali a Taipei, accesa capitale (finanziaria) del Taiwan. I giorni si ripetono uguali per l'essere umano: lunghe camminate fra i grandi palazzoni illuminati, ritorni a casa dalla famiglia, litigio o freddezza, ostilità. Giunti alla fine del proprio progresso, gli uomini cominciano ad avvertire, nello spazio che li circonda, la palpabile insignificanza della loro presenza, l'inevitabile vuoto di chi non ha più cosa desiderare. E' questa un'ammissione difficilmente realizzabile da parte dell'essere umano medio, ed è quantomeno impossibile trovare chi la espleti in qualche conseguente comportamento che interrompa la routine, fatta eccezione per chi, per farsi notare nei luoghi formalmente più opportuni, si mostra negli atteggiamenti più consoni, con la sfacciataggine di chi vuole apparire umano.
Sotto la facciata di normale ripetizione e di lontana contemplazione, la Vita cela le sue complessità, che vanno di pari passo alla infinita variabilità umana a sua volta espressa nelle azioni più insignificanti. Una sincerità assopita dal ridondante ripresentarsi degli stessi luoghi, degli stessi uomini, delle stesse cose, il disastro contingente dell'abitudine. Finché nel pulsare catatonico e ridondante di una Vita solo esteriore giunge la scintilla che fa esplodere la miccia, e tutto è avvolto in un'aura di morte che non ha fatto altro se non unirsi alla reale immobilità (mortuaria) onnipresente. Quando la regolarità minaccia di andare in frantumi, l'umanità avverte la necessità di spingersi di nuovo in gioco verso un nuovo stadio della propria esistenza, che possa però, alla fine, accettare quella stessa esistenza, aprendo quindi uno squarcio (sur)reale nelle strade affollate della modernità. Come un velo dipinto di luci tenui e raffreddate la Vita torna a proporsi nella sua natura profondamente filmica, nel momento in cui l'Avvenimento ci fa vivere tre volte di più (o vivere realmente) senza che la realtà sia stata minimamente intaccata. Possiamo ancora avvertire la nostra presenza contingente, quella che tanto ci teniamo stretta, per tuffarci nella piscina della scoperta: dell'incontro spaesante di passato e presente, di dentro e fuori, di azione e immobilità, di scoperta dell'arte. Gli ultimi quattro esperimenti esistenziali che i quattro componenti della famiglia protagonista (nessuno prevale sull'altro, come in un buon film corale) compiono rispettivamente per affrontare il fallimento graduale e ammutolito del giorno e della notte e del loro prolisso incedere. Scissi in una positiva alienazione che li pone a paragone con loro stessi (nei riflessi degli specchi che tanto gli edifici pubblici si ostinano ad offrire ai nostri sensi visivi), gli uomini possono osservarsi senza comprendersi, rivelando a loro stessi la loro corporeità e la loro effettiva presenza. Nell'accettazione della loro transitorietà, sullo sfondo asfissiante dei grandi spazi metropolitani, essi possono finalmente ammettere e presupporre, in senso conoscitivo-morale, la loro irrilevanza. Dunque scoprire. Il fallimento che si fa denaro perduto, capoufficio arrabbiato, lavoro insoddisfaciente si tramuta in ricerca di risposte e forse catarsi nella (ri)scoperta di un amore ossessivo, che era la Vita della gioventù, e scoperta, questa volta nuova, dell'infanzia di qualcun'altro, che ha potuto crearsi e farsi (rendere se stesso) magia (il collega giapponese con i giochi di carte, assolutamente privi di fini lucrosi); lo specchio di una ridondanza rivelata dalla costanza di un affetto unidirezionale (la madre che ripete sempre le stesse cose alla nonna in coma) si trasforma nell'occasione del farsi osservare e del farsi "ripetere sempre le stesse cose" (destino che aspetta la madre nel monastero tibetano, ma solo grazie alla sua testimonianza alla fine del film); un senso di colpa irrazionale e insensato nei confronti di un fatto assolutamente incontrollabile diventa stimolo di cambiamento a favore di un nuovo possibile (tragico) amore; alla consueta fantasia di un'infanzia autonoma e abbandonata si risponde con (e si aggiunge) l'atto stesso della contemplazione di ciò che non si vede né si percepisce, non tanto ciò che è troppo basso ad altezza bambino ma ciò che è dietro, all'altezza di tutti ma celato a tutti. Come il gigantesco elefante della cosa in sé, riempitivo degli spazi immensi dei campi lunghi di Edward Yang, che presenta aspetti molto più nascosti dalla quotidianità e dal freno castrante della curiosità. Tesi così all'osservazione di se stessi all'opera in nuove attività vitali, meno spontanee di quanto appaiano ma fragili, temporanee e ovviamente insoddisfacienti, i personaggi cominciano lentamente a "staccarsi" dallo sfondo, ad assumere un contorno e una loro campitura, come nel ripercorrere l'atto stesso della scoperta, da parte di uno spettatore, dei caratteri di un personaggio qualsiasi in un film qualsiasi, possibilmente realistico. E per loro è autorappresentazione, attraverso i riflessi, attraverso le distanze, attraverso la separazione dal flusso di (in)coscienza del "giorno dopo giorno", con una concessione sottile e difficile all'identificazione, non nei personaggi ma in se stessi. Come ponendo un'altra realtà che pone in diversi momenti azioni insensate ed eventi irrazionali, nel calderone caotico e conturbante dell'esistenza sovrastrutturata da civiltà e menzogne, lo spettatore si identifica non con il personaggio ma con l'atto del personaggio di scoprire se stesso, di riflettersi, di tornare ad accettare la pensata e ragionevole stabilità familiare. ...e uno...e due, la sinfonia può riprendere. Yi yi è illuminante percorso, apparentemente minimale ma eccezionalmente complesso, dell'autocoscienza esistenziale.
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