Regia di Amerigo Anton (Tanio Boccia) vedi scheda film
Lo sanno tutti ormai che da questa stessa sceneggiatura di Mino Roli del ’68 verrà poi girato, ad insaputa del regista Cesare Canevari, “Matalo!” del 1970. L’unica differenza, abissale, tra i due film è lo stile adottato per raccontare una storia disperata, di disperazione e di disperati. Tutti infatti, nessuno escluso, sono personaggi di un’alterazione, di una diversità. Sono atomi impazziti senza misura e senza direzione. L’idea efficace di Mino Roli trova in Tanio Boccia un mestierante che con uno sguardo pastello, molto classico, guarda alla decadenza del genere come primo interlocutore metadiscorsivo; in Cesare Canevari trova invece uno sperimentale tocco psichedelico, folle, completamente “altro”, uno sguardo ancora più disperato perchè ancora più illogico e senza senso, che propone metadiscorsivamente un nuovo corso western. Canevari firma un capolavoro, Tanio Boccia “solo” un grande western all’italiana.
Una seconda differenza è il parco attori. Se in Canevari abbiamo attori di un certo spessore che in più sono squisitamente in parte e azzeccatissimi per i loro ruoli, come Corrado Pani, Lou Castel e Antonio Salines, in Boccia soltano Furio Meniconi ha vero mestiere da vendere. Robert Mark, Max Dean (Massimo Righi) e Larry Ward sono solo delle figurine appiccicate su uno scenario che le esalta più del dovuto. Senza Meniconi il film sarebbe guardabile solo per la grande messa in scena e per la regia davvero ispirata di Tanio Boccia. Infatti, a parte una set decoration entusiasmante (come per “Matalo!”, là complice anche il polveroso desierto almeriense), e a parte un’iconografia azzeccata in pieno, è la regia a farla da padrona. Boccia usa uno sguardo contemplativo per filmare una vicenda così disperata a cui sarebbe stata più indicata una regia più aggressiva e dal montaggio sincopato. Qui invece si preferiscono i campi lunghi, di per sè molto inquietanti proprio linguisticamente se usati nel genere giusto e al momento giusto, e si preferisce raccontare quasi con distacco la vicenda, accompagnando come uno spettatore invisibile ogni scena. Così tutta la prima sequenza della fuga a cavallo, il pestaggio ai danni di Larry Ward, l’occultamento dell’oro da parte di Furio Meniconi, e ogni singola azione del film appaiono dilatate inverosimilmente e si presentano come scene naturalistiche di impatto alienante. Mentre Canevari “deforma” il profilmico con atteggiamenti di regia sovversivi, Boccia “sottolinea” il gesto con semplice, ma estrema naturalezza. Boccia insomma contempla, Canevari viviseziona, opera chirurgicamente gli schemi e le linee narrative del genere, nonostante non sia stato cambiato nulla alla sceneggiatura di Mino Roli se non un taglio energico dei dialoghi.
Altra felice anomalia di “Dio Non Paga il Sabato” è il tono horror che il regista adotta per quasi la totalità del film: geometrie oniriche, presenze inquietanti, lunghi silenzi minacciosi, una partitura musicale anacronistica, case abbandonate, cimiteri, follie e perversioni varie. Tutto fa apparire il film di Boccia come un horror mancato, dove il rosso segno della follia baviana è presente e pregnante in tutti quei segnali di esplicita e voluta violenza che riempiono insolitamente il film. Dopotutto la violenza e l’iconografia cimiteriale del “Django” di Corbucci erano di poco precedenti, e la lezione deve essere arrivata ben viva e palpitante a Tanio Boccia, tale da rendere i vari pestaggi, le varie torture, i vari inserti erotici e il bellissimo attacco del cavallo a Max Dean, il determinante linguistico per atipicizzare una storia già di per sé atipica e malata.
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